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Pil

I paradossi del Pil

Il Bloc Notes di Michele Magno

 

Ce la farà il governo Conte a rispettare nel 2019 l’obiettivo dell’aumento di un punto del Pil? Difficile, molto difficile. Ma chi vivrà vedrà. Accontentiamoci, per il momento, di qualche spigolatura su quello che è universalmente ritenuto il simbolo stenografico della stazza dell’economia.

L’economista bielorusso Simon Kuznets (1901-1985), ideatore del Pil come lo conosciamo oggi, già nel 1934 avvertiva il Congresso degli Stati Uniti che il benessere di un Paese difficilmente può essere dedotto solo dalla misurazione del suo reddito nazionale. Ad esempio, esso non considerava attività svolte al di fuori del mercato (come il volontariato e il lavoro domestico) e le esternalità negative -sociali e ambientali- del sistema produttivo.

Soltanto dal 1990 ipotesi alternative di benessere hanno cominciato a giocare un ruolo rilevante nel dibattito politico. Merito anche dell’Indice di sviluppo umano (Isu), elaborato dall’ex ministro delle Finanze pakistano Mahbub ul Haq e adottato dall’Onu, che al Pil affianca altre grandezze come speranza di vita, tassi d’inquinamento e di scolarità, mortalità infantile. Per non parlare dell’indice di “Felicità nazionale lorda”, un concetto -un po’ stravagante- inventato dal sovrano del Bhutan nel 1972, che quantifica le performance delle comunità fedeli ai principi spirituali del buddismo.

L’ultimo tentativo di “riformare” il Pil che ha catturato l’attenzione dei media è stato quello del Presidente francese Nicolas Sarkozy, che nel 2009 lo affidò -con scarsi risultati- ai premi Nobel Amartya Sen e Joseph Stiglitz. Forse pochi ricordano, invece, che diciotto anni fa – su impulso del patron di Esselunga Bernardo Caprotti- si costituì un gruppo di ricerca per analizzare il nostro Pil voce per voce, per poi paragonarlo a quello di Francia, Spagna, Olanda e Gran Bretagna. Il gruppo era presieduto da Paolo Savona, coordinato da Paolo Borzatta e composto, tra gli altri, dagli economisti Alessandro Penati e Giacomo Vaciago, dallo stesso Caprotti e da Alfredo Ambrosetti, titolare dello Studio di consulenza milanese.

Le sue conclusioni furono sorprendenti: in termini comparativi, in Italia si viveva meglio di quanto raccontato dai numeri ufficiali. Infatti, le inefficienze pubbliche e private (burocrazia, trasporti, sanità, corruzione, costi energetici) erano registrate e valevano tra il 14 e il 26 per cento del valore totale dei nostri beni e servizi. Mentre no profit, economia illegale, sommerso ed economia informale (ad esempio, lavoro casalingo, autoproduzione agricola e artigianale), non erano computati come reddito.

Da allora molte cose sono cambiate, ma il reddito da prostituzione in Olanda e -in certa quota parte- l’economia domestica negli Usa vengono ancora calcolati nel prodotto interno lordo, diversamente che da noi. Oggi le stime del 2000 sarebbero ancora attendibili? In realtà, bisognerebbe aggiornarle alla luce dei valori attuali e del nuovo metodo di calcolo del Pil. Tuttavia, i costi della burocrazia e della corruzione, delle inefficienze pubbliche e private sarebbero ancora calcolati come reddito, al contrario dell’economia illegale e informale che pure “produce ricchezza”. Sono i paradossi del Pil.

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