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I magistrati fanno la festa alla Festa del Primo Maggio

I graffi di Damato In una Repubblica “fondata sul lavoro”, come dice il primo articolo della Costituzione in vigore dal 1948, la festa del lavoro, appunto, ha una sua valenza particolare, questa volta particolarissima perché si svolge in tempo di guerra. Che è quella condotta da più di 66 giorni dalla Russia di Putin contro…

In una Repubblica “fondata sul lavoro”, come dice il primo articolo della Costituzione in vigore dal 1948, la festa del lavoro, appunto, ha una sua valenza particolare, questa volta particolarissima perché si svolge in tempo di guerra. Che è quella condotta da più di 66 giorni dalla Russia di Putin contro l’Ucraina senza essere stata neppure dichiarata se non come “operazione speciale”, condotta per “denazificare” il Paese vicino, attratto dall’Occidente più che dal Cremlino.

Per porre fine a questa “operazione”, che a chiamare guerra si rischia ancora la galera in Russia, il presidente Putin ha fatto sapere di essere intenzionato non a cessarla ma a dichiararla per quella che è. E a proseguirla con ancora più forza, cercando di mangiarsi ancora più Ucraina e accreditando la vignetta per niente sarcastica, a questo punto, di Nico Pillinini sulla prima pagina della Gazzetta del Mezzogiorno titolata “Primo mangio”, anziché Primo maggio. In essa lo squalo russo con tanto di zeta impressa addosso, come i carri armati di Putin, si accinge a divorare il pesce Zelensky.

Ai sindacati, che si sono dati appuntamento ad Assisi per questa edizione della festa del lavoro, la guerra naturalmente non piace perché rischia di ripercuotersi negativamente anche sull’Italia. E non tanto perché con altri paesi occidentali stiamo aiutando l’Ucraina a resistere non per arrendersi, come in tanti auspicano, ma per respingere l’assalto, sopravvivere e magari anche vincere. Questa guerra non piace ai sindacati per gli effetti recessivi che provoca ben al di là dei confini entro i quali si svolge.

Le già difficili condizioni di lavoro, con tanta disoccupazione ancora e tanta occupazione sottopagata, sono destinate a peggiorare sino a quando non si ripristinerà in Europa la pace, e non si troverà un nuovo, più sicuro approvvigionamento energetico, visto che quello incautamente costruito sino a due mesi fa la fa dipendere dalla Russia.

In questa situazione a dir poco drammatica, in cui tutti rischiamo una brutta fine, non solo l’Ucraina, è assai curioso -saltando da un argomento all’altro- il modo in cui il sindacato delle toghe italiane ha deciso di partecipare alla festa del lavoro: decidendo lo sciopero praticamente contro il Parlamento che sta esaminando, in particolare al Senato, dopo il sì della Camera, una riforma pur parziale, anzi parzialissima della giustizia. Neppure la guardasigilli Marta Cartabia, col suo passato prestigioso di giudice e poi presidente della Corte Costituzionale, si è sottratta alle contestazioni subite dai suoi predecessori del centrodestra e del centrosinistra. Uno dei quali, Clemente Mastella, avvertì come una ritorsione l’arresto della moglie, peraltro presidente del Consiglio regionale della Campania, si dimise dal secondo governo Prodi e ne provocò la crisi, conclusasi con le elezioni anticipate.

I magistrati si sono messi sulla strada dello sciopero -peraltro deliberandolo nella loro assemblea generale  con una maggioranza di 1081 voti contro 169 e tredici astensioni- per essere “ascoltati”, come dicono i loro sindacalisti: in realtà, essendo stati ben consultati, e quindi ascoltati, sia dal governo sia dalla Camera, per cercare ancora di imporre i loro ormai abituali veti, in difesa di certe prerogative e abitudini. Di cui alcuni dei loro più qualificati colleghi, come Nino Di Matteo, consigliere superiore della Magistratura, hanno avvertito il pericolo che possano essere scambiati  per privilegi castali proprio per il modo col quale  vengono difesi. Lor signori, li chiamerebbe la buonanima di Fortebraccio sulla buonanima dell’Unità, vogliono giudicare ma non essere giudicati, neppure fra di loro, soprattutto col metodo che chiamano spregiativamente “meritocratico”.

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