Sono trascorse centotrentacinque settimane dall’invasione russa dell’Ucraina. E per centotrentacinque volte due ospiti fissi di un salotto televisivo serale, il direttore di un quotidiano e un sociologo (firma di punta dello stesso quotidiano), ci hanno raccontato che Zelensky deve fare pace con Putin (cioè arrendersi all’autocrate del Cremlino), pena la distruzione del suo paese. Ovviamente, si guardano bene dal sostenere che Hamas deve arrendersi a Israele pena la distruzione della Striscia di Gaza. I due “neoerasmiani” a loro insaputa (“La pace più ingiusta è preferibile alla guerra più giusta”, Erasmo da Rotterdam, “Querela pacis”, 1517) sembrano, più che opinionisti, teatranti di una commedia farsesca.
Uno dei personaggi della “Nausea” di Jean-Paul Sartre, l’Autodidatta, legge le opere che trova in biblioteca per ordine alfabetico d’autore, rinunciando a qualsivoglia criterio selettivo. “L’uomo senza qualità” di Robert Musil narra come il generale Stumm von Bordwehr catalogasse le principali correnti filosofiche alla stregua di eserciti contrapposti: su un fronte gli empiristi, sull’altro i razionalisti; di qua gli idealisti, di là i materialisti. Ma le idee, poiché non obbediscono a ordini e schieramenti, si prendono gioco di lui. L’Autodidatta e il generale sono con ogni probabilità altrettanti omaggi a Bouvard e Pécuchet, i protagonisti del romanzo omonimo di Gustave Flaubert. Come loro, ce la mettono tutta per farsi passare per competenti, ma di fatto restano due splendidi idioti.
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Durante il volo di ritorno in Italia da Singapore, al termine di un lungo viaggio in Asia e in Oceania, come di consueto papa Francesco si è intrattenuto sull’aereo con i giornalisti. Tra le varie domande che gli sono state rivolte, il pontefice ha risposto così a una sulle prossime elezioni statunitensi: “Ambedue [Trump e Harris] sono contro la vita, sia quello che butta via i migranti sia quello che uccide i bambini. Io non sono statunitense, non andrò a votare lì. In genere, si dice che non votare è brutto, non è buono. Si deve votare. E si deve scegliere il male minore. Chi è il male minore, quella signora o quel signore? Non so, ognuno in coscienza pensi e faccia questo”.
La verità è che Jorge Bergoglio ha votato contro la democrazia americana, sostenendo che chiunque dei due candidati a guidarla vincerà sarà una specie di assassino. Chi lo difende, replica: ha espresso in modo sincero il suo pensiero, perché rimproverarlo? Proprio questo è il punto. Infatti, accettando di rispondere a quella domanda, ha usato una libertà di parola di cui non si è mai servito per giudicare apertamente il massacratore degli ucraini o le più odiose dittature che infestano il pianeta. Da un lato l’anatema contro la personificazione del male, dall’altro il linguaggio allusivo e metaforico (nella migliore delle ipotesi) della tradizione diplomatica vaticana. Con tutto il rispetto per il soglio che fu di san Pietro, non ci siamo.
Riflettiamo allora su questo male. Dall’inizio del suo pontificato non si contano gli appelli di Francesco perché la pace, cioè per lui il “bene assoluto”, prevalga sulla guerra, cioè sempre per lui il “male assoluto”. Nonostante il suo alto e nobile magistero, questo male assoluto non sembra però sradicabile dalla storia umana. Ciò ripropone anche a un non credente come chi scrive, ma che si considera crocianamente cristiano, una questione che fu avanzata per primo, nella sua formulazione più radicale, da Epicuro (341-270 a.C) con la sua famosa “equazione”: “La divinità o vuole abolire il male e non può; o può e non vuole; o non vuole né può; o vuole e può. Se vuole e non può, dobbiamo ammettere che sia impotente, il che è in contrasto con la nozione di divinità; se può e non vuole, che sia invidiosa, il che è ugualmente estraneo all’essenza divina; se non vuole e non può, che sia insieme impotente e invidiosa; se poi vuole e può, la sola che conviene alla sua essenza, da dove dunque provengono i mali e perché non li abolisce?”.
È nota la risposta a queste obiezioni che ha finito col prevalere nella teologia cristiana, nella versione di Origene come in quella di Agostino: il male non è altro che assenza di bene (“privatio boni”). Ma è stato soprattutto Agostino a insistere sulla corruzione congenita che deriva, per trasmissione, dal peccato originale dei “protoplasti” (ossia dei “progenitori”, Adamo e Eva). Corruzione congenita che è madre di un male morale da cui soltanto la grazia insondabile del Signore libera i predestinati. L’età moderna conosce tre grandi teodicee: quella di Leibniz, di Spinoza e di Malebranche. Pur partendo da presupposti diversi, giungono a un identico risultato: Dio non avrebbe potuto creare un mondo diverso da quello attuale. Le teodicee moderne pretendevano, dunque, di rendere il male pienamente intellegibile e giustificabile.
In un breve scritto pubblicato nel 1791, “Sul fallimento di tutti i tentativi filosofici in teodicea”, Kant considera esecrabile che Dio giudichi con regole diverse da quelle degli uomini, e che quel che appare male a noi sia per lui legittimo. Secondo l’autore delle tre “Critiche”, è la sofferenza e l’indignazione di Giobbe che emozionano; le “parole in difesa di Dio”, invece, irritano e non consolano. La demolizione kantiana della teodicea e gli orrori del “secolo breve” hanno contribuito alla crisi della dottrina agostiniana che nega la realtà del male. A questo punto, mi sia consentita un’ultima considerazione. La crisi del “Dio-tappabuchi” (l’espressione è del pastore luterano Dietrich Bonhöffer, impiccato dai nazisti nel 1945), acuita dal trauma della Shoah, dovrebbe aver congedato l’idea di un male strumentale che serve a far meglio risplendere la bontà di un Dio sapiente alchimista, che trae il bene dal male.
*InOltre, 15 settembre 2024