Tre grandi università americane, guidate da tre donne. Anzi due, perché Elizabeth Magill della University of Pennsylvania è stata dimissionata già sabato. Si è salvata per il rotto della cuffia Claudine Gay, rimproverata ma confermata dal consiglio d’amministrazione di Harvard dopo una riunione fiume a porte chiuse. A mettere a rischio le loro poltrone è stata un’altra donna, Elise Stefanik, deputata repubblicana di New York, essa stessa laureata nel celebre ateneo.
Il 5 dicembre, durante un’audizione alla commissione istruzione della Camera sull’antisemitismo nelle università, Stefanik ha chiesto alle tre presidenti (rettrici, in italiano) se siano compatibili con le loro regole le manifestazioni filopalestinesi inneggianti allo sterminio degli ebrei moltiplicatesi a seguito della risposta inevitabilmente dura di Israele alla strage del 7 ottobre. Nessuna delle tre ha saputo dire esplicitamente sì o no. Tutte si sono abbarbicate a risposte tecniche preparate – si è poi saputo – dagli studi legali che assistono gli atenei. Peggio di tutte è andata a Magill, che ha detto che «la decisione dipende dal contesto». Nel giro di poche ore, un grande benefattore ha ritirato una donazione di 100 milioni di dollari, il consiglio della Wharton Business School di Penn ha chiesto le dimissioni della rettrice e il governatore della Pennsylvania, membro di diritto del cda, si è unito al coro. Il 9 dicembre Magill è saltata, insieme al presidente del cda, Scott L. Bok. Gay si è salvata, sia pure con un chiaro rimprovero: «La dichiarazione iniziale dell’Università avrebbe dovuto essere una condanna, immediata, diretta e senza equivoci.» Come, invece, non è stato.
NON SOLO HARVARD: IL CORTOCIRCUITO WOKE DELLE UNIVERSITÀ
Attenzione però a concludere che nelle università USA non si può criticare Israele senza pagarne le conseguenze. Il problema, lamentano in molti, è semmai l’opposto: in nome della correttezza politica, della diversità, dell’inclusione, del woke (qualsiasi cosa voglia dire l’impronunciabile parola), si paga per tutto tranne che per Israele. Tanto per restare a Harvard, nel 2019 il professore di giurisprudenza Ronald Sullivan fu rimosso da un incarico universitario per aver accettato di unirsi al collegio di difesa di Harvey Weinstein, accusato (e poi, giustamente, condannato) di pedofilia. Sempre nel 2019, Roland G. Fryer, professore ordinario di economia, fu sospeso per due anni dall’insegnamento per le sue teorie che minimizzavano l’impatto della variabile razziale. Nel 2021 la docente di biologia evolutiva Carole K. Hooven fu attaccata per aver detto che in termini biologici ci sono davvero due sessi, senza per questo negare la libertà di scegliersi l’identità di genere.
Più semplicemente, chiunque dovesse azzardarsi a contestare identità o stili di vita, si troverebbe fuori dalla porta in un attimo. Non è un caso che la lettera di insediamento di Gay al vertice della Faculty of Arts and Sciences di Harvard, il 20 agosto 2020, era incentrata esclusivamente sulla promozione di diversità, equità e inclusione (DEI). Né aiuta il fatto che proprio la DEI sia stato, per esplicita (ancorché tardiva) ammissione di alcuni membri del cda, il criterio principale nella scelta di Gay, primo presidente nero nei 387 anni di vita della scuola. Proprio questo rigore – o forse si tratta di rigidità – nella difesa di ogni possibile minoranza (tranne una, sempre quella) è ciò che ha reso incredibile lo scambio di battute tra deputata e presidente.
«Chiedere il genocidio degli ebrei viola la regole di Harvard su bullismo o molestie?»
«Dipende dal contesto,» ha detto Gay, aggiungendo che «quando alle parole seguono i comportamenti, interveniamo.»
«Quindi la risposta è Sì, quella chiamata al genocidio degli ebrei viola il codice di condotta di Harvard, giusto?»
«Di nuovo, dipende dal contesto.»
«Non dipende dal contesto», ha ribattuto Stefanik, con il piglio di un pubblico ministero. «La risposta è sì. E questo è il motivo per cui lei dovrebbe dimettersi.»
LIBERTÀ DI ESPRESSIONE, DISCRIMINAZIONE E CONSEGUENZE ECONOMICHE
In punta di diritto, la posizione delle università rispecchia la giurisprudenza prevalente sulla libertà di espressione. Di fatto, si moltiplicano le notizie di studenti ebrei che non mangiano più a mensa per non essere identificati attraverso la scelta di piatti kosher. Liam Chitayat, dottoranda al MIT, ha denunciato che gli amministratori consigliano agli studenti ebrei di usare le entrate posteriori al campus e poi invitano gli antisemiti. Si tratta, insomma, di due pesi e due misure.
Il problema personale di Magill, Gay e Kornbluth, la biologa che da gennaio 2023 guida il MIT, rischia però di diventare un dramma istituzionale per le università che guidano. Le conseguenze della mobilitazione dei grandi donatori, come Bill Ackmann, amministratore delegato del fondo Pershing Square Capital, vanno infatti ben oltre la perdita delle risorse finanziarie di cui hanno bisogno per funzionare, ben più ingenti di quelle assicurate dalle pur elevate rette.
Un’eventuale causa per discriminazione – perché proteggere una minoranza anziché l’altra – porterebbe alla revoca dello status di non profit, con annessa perdita dei privilegi fiscali. Le università dovrebbero quindi pagare tasse sul reddito e sul patrimonio, con conseguenze disastrose date le alte aliquote del New England. Per capirci, l’endowment (capitale) di Harvard sfiora i 51 miliardi dollari, quello del MIT è di 23,5 e Penn è a quota 21.
Se la possibilità di essere dichiarati aziende come tutte le altre pare remota, è appena il caso di sottolineare che nel giugno 2023 la Corte Suprema ha dichiarato che l’uso di quote razziali nelle ammissioni universitarie viola il Titolo VI del Civil Rights Act del 1964. Per coincidenza, ma forse no, il caso riguardava soprattutto Harvard, che ha perso 6-2. In altre parole, già oggi nei severissimi concorsi d’ammissione le università non possono favorire in modo strutturale un gruppo etnico per motivi sociali. Di qui a certificare la mancata protezione degli ebrei allo stesso modo – si badi bene: non di più, ma allo stesso modo – di ogni altro docente e studente, il passo legale è breve.
Le goffe risposte all’audizione del 5 dicembre potrebbero quindi avere conseguenze molto più importanti della pessima figura mediatica alla quale Magill, Gay e Kornbluth hanno cercato di porre rimedio con videomessaggi e post nei quali hanno finalmente detto ciò che alla Camera, sotto giuramento, non avevano saputo dire. Too little, too late?
Dopo una riunione fiume, iniziata alle 8 del mattino di lunedì, il cda ha risolto la questione confermando Gay. Che resta però sub iudice per un’altra grana di natura personale. Secondo il cda, le voci di plagio nella tesi e di tre pubblicazioni scientifiche scritte dall’attuale presidente contengono «alcuni casi di citazione inadeguata», che pur non violando «gli standard di Harvard per cattiva condotta della ricerca» hanno portato Gay a chiedere di inserire «citazioni e virgolette che erano state omesse dalle pubblicazioni originali.» Secondo il quotidiano Harvard Crimson, questo «mette in dubbio il processo di verifica seguito dal comitato di selezione del presidente che meno di un anno fa portò alla scelta di Gay.» L’arbitro, insomma, ha deciso che il fallo non meritava l’espulsione ma ha comunque estratto un cartellino giallo. E la partita è appena agli inizi: Gay si è insediata da soli 5 mesi, ed in media i presidenti di Harvard restano in carica 12 anni.