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Occidente

Vi spiego tutti gli errori di Macron. Parla il prof. Parsi

"Macron è in evidente stato confusionale. Pensa di essere De Gaulle, ma è preso dal complesso di Asterix: nella testa ha il gallismo, non il gaullismo. Macron è stato artefice dei rapporti tra l’Europa e la Russia, e ora sta facendo lo stesso errore con la Cina. Probabilmente è ancora arrabbiato con l’America per l’affare Aukus", dice Start Magazine Vittorio Emanuele Parsi, politologo e professore di relazioni internazionali presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, che su Italia, Russia, Ucraina e Usa dice che...

 

Uno dei concetti che dal 24 febbraio 2022 viene più evocato e dibattuto in tutto il mondo è quello di neutralità. La neutralità rispetto alla Nato e all’Occidente che la Russia voleva imporre all’Ucraina, ad esempio, come pretesto formale per realizzare un’opera di inglobamento del Paese. La neutralità dall’alleanza atlantica che la Finlandia e la Svezia hanno deciso di abbandonare, convinte proprio dall’invasione russa, e che l’Austria e la Svizzera stanno mettendo in discussione. La neutralità tra le due parti in guerra, né con Mosca né con Kiev, che una parte delle opinioni pubbliche europee – in Italia si propone un referendum contro l’invio di armi agli ucraini – professa per esorcizzare lo spettro del conflitto, oppure per sposare di nascosto la posizione dell’aggressore rispetto a quella dell’aggredito.

Di guerra, di neutralità e di riarmo – un’altra conseguenza dell’attacco della Russia all’Ucraina e ai princìpi del diritto internazionale – ne abbiamo parlato con Vittorio Emanuele Parsi, politologo e professore di relazioni internazionali presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, oltre che autore di Titanic. Naufragio o cambio di rotta per l’ordine liberale (il Mulino, 2022) e di Il posto della guerra e il costo della libertà (Bompiani, 2022).

L’invasione russa dell’Ucraina e l’ascesa della Cina in Asia hanno spinto al riarmo molti paesi che dalla Seconda guerra mondiale avevano tenuto una linea “pacifista”, per così dire: penso al Giappone, alla Germania (che pare voglia impegnarsi a rispettare l’obiettivo del 2 per cento di spesa della Nato), all’Europa intera. È una risposta all’intenzione di due nazioni autoritarie, Pechino e Mosca, di ricreare l’ordine globale a loro immagine e somiglianza. Professore, stiamo andando verso un mondo a blocchi, democrazie contro autocrazie? La globalizzazione è a rischio?

Il mondo rimane interconnesso e globalizzato. Sarà però una globalizzazione dominata dalla divergenza, all’interno della quale le differenze di regime politico e di visione sulle regole del sistema si faranno più evidenti e contendibili. Ciò creerà un continuo stop-and-go alle relazioni tra le democrazie e il blocco dei dispotismi. Alcuni paesi del Sud globale, poi, a prescindere dall’appartenenza o meno alle democrazie, saranno probabilmente attratti dai vantaggi che sperano di poter lucrare sostenendo un blocco piuttosto che l’altro.

C’è, in questo approccio, un riflesso anti-occidentale indotto dalla più o meno lunga colonizzazione dei secoli passati. Insomma: non significa che ci sarà una nuova guerra mondiale o una guerra a pezzi. Ma sicuramente ci sarà la possibilità di un riscaldamento della tensione ogniqualvolta che i nuovi dispotismi tenderanno a convergere e a pensare che da questa convergenza possa crearsi l’occasione per sostituirsi alla centralità dell’Occidente, promuovendo princìpi, istituzioni e regole alternativi a quelli delle democrazie. Questi princìpi potrebbero finire per mettere a rischio la tenuta stessa delle democrazie occidentali.

Nel suo ultimo libro e nei suoi interventi, lei dà molto risalto alla resistenza eroica della popolazione ucraina. Mi sembra però che in Italia molti commentatori non condividano le sue lodi per questi atti di coraggio. Dunque le chiedo: in un mondo che sembra tendere verso scenari meno pacifici di quelli a cui siamo abituati, anche i singoli e le collettività devono scoprire una moralità nuova? Dobbiamo diventare più eroici, nel senso di essere più attivi per difendere le nostre democrazie e le nostre libertà?

Bisogna riscoprire la classica virtus repubblicana, e comprendere che la democrazia e la libertà non sono pasti gratis. Quante cittadinanze dimostreranno di amare veramente la loro libertà, e di essere disposte a battersi e a morire per quello in cui credono? È un grande punto di domanda. In Italia l’opinione pubblica avvertiva come molto meno minacciosa la guerra in Jugoslavia, nonostante fosse vicinissima ai nostri confini, e percepisce come più pericolosa la guerra in Ucraina, che invece si combatte più lontano.

Gli italiani hanno capito che, in quest’ultimo caso, c’è una superpotenza che ha attaccato uno Stato vicino con l’intenzione di riportarlo con la violenza sotto il suo giogo e modificare i propri confini. La percezione di minaccia dell’opinione pubblica è corretta, ma ha provocato un effetto di empatia diverso. L’empatia verso gli jugoslavi era semplice, in un certo senso, perché eravamo certi che quella guerra non ci avrebbe contagiato e coinvolto. Mentre la guerra in Ucraina mette in discussione i cardini del sistema internazionale: ci coinvolge, quindi, e potrebbe farlo anche maggiormente. L’opinione pubblica, allora, sta reagendo rimuovendo la guerra: rimuovendo l’eroismo, rimuovendo l’empatia verso gli aggrediti, chiedendo che la guerra – e la resistenza – finiscano. Tutto questo per paura di venire coinvolta.

L’opinione pubblica dispone di tutti gli elementi per cogliere la gravità della crisi ucraina, ma va aiutata a metterli in ordine. È a questo che servono i leader e gli intellettuali: a fare in modo che le persone abbiamo la possibilità di capire cosa c’è in gioco, di esercitare la loro responsabilità e di assumere decisioni con maggiore comprensione delle dinamiche. Io credo fortemente in questa cosa. C’è bisogno di fare un lavoro di disvelamento della retorica russa, c’è bisogno di mettere in evidenza i rapporti di causa-effetto spesso distorti.

La reazione dell’Ucraina all’invasione ha peraltro messo in evidenza il ruolo dei decisori. Cioè la loro capacità di prendere partito, di assumersi dei rischi, di fare scelte difficili. Pensate a Zelensky: prima dell’invasione era considerato un comico o poco più; è diventato un personaggio tragico, un eroe di guerra.

L’invasione dell’Ucraina ha fatto crollare il calcolo strategico di molti paesi europei, incluso il nostro, verso la Russia di Putin: nel corso dei decenni abbiamo costruito una dipendenza profonda, soprattutto sull’energia, verso il Paese, e adesso dobbiamo lavorare in fretta per porvi rimedio. In aprile il presidente francese Emmanuel Macron è andato in Cina a stringere degli accordi economici e ha detto che l’Unione Europea deve essere meno dipendente dagli Stati Uniti. Le chiedo: stiamo commettendo un altro grosso errore, che un giorno potremmo ritrovarci a pagare caro? Bruxelles considera Pechino una rivale sistemica.

Macron è in evidente stato confusionale. Pensa di essere De Gaulle, ma è preso dal complesso di Asterix: nella testa ha il gallismo, non il gaullismo. Dobbiamo evitare di mostrare un fronte disunito ai dispotismi proprio mentre loro si uniscono. Macron non è certamente un buon esempio di intelligenza politica: è stato artefice dei rapporti tra l’Europa e la Russia, e ora sta facendo lo stesso errore con la Cina. Probabilmente è ancora arrabbiato con l’America per l’affare Aukus.

Come Unione Europea abbiamo una sacrosanta necessità di autonomia strategica, che tuttavia non significa illuderci che il destino di Taiwan non ci interessi. Muoversi con l’indipendenza strategica adesso, però, quando non ne abbiamo le capacità, è soltanto velleitario e divisivo. Non dobbiamo renderci indipendenti dagli Stati Uniti in astratto, ma piuttosto agire concretamente per fare in modo che se un domani alla Casa Bianca dovesse tornare Donald Trump o uno come lui, l’Unione Europea sia in grado di difendere i suoi confini, a prescindere da eventuali patti fra Washington e Mosca. Io sono favorevole a un’Europa con maggiori capacità militari e maggiori volontà politiche di utilizzare questi asset in maniera dissuasiva, di deterrenza, in modo da non doversi trovare nella condizione di combattere o arrendersi. In passato è stata però fatta una scelta di free-riding sulla sicurezza. Il nostro modello era il seguente: gli Stati Uniti provvedevano, pagando, alla nostra sicurezza; noi, intanto, prendevamo energia e basso costo dalla Russia. Tutto questo ora non è più possibile.

La democrazia e la libertà, sia interna che dalle minacce esterne, non è inoltre compatibile con questa idea di economia export-led, basata su un’economia che costa poco, con salari bassi e spese scarse per la difesa. Qualcuno dovrà mettere mano al portafoglio. Ma non possiamo chiedere altri sacrifici alle classi lavoratrici. Bisogna lavorare sulle rendite, ossia su tutto ciò che non produce né innovazione né lavoro, e che quindi non produce nemmeno futuro.

(L’intervista è stata pubblicata sull’ultimo numero del quadrimestrale di Start Magazine, “Una certa idea di difesa”)

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