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Juventus Gramsci

Gramsci e Togliatti, la rivoluzione e la Juventus

Il Bloc Notes di Michele Magno

L’aneddoto è noto. Mentre stava svolgendo il suo intervento nel corso di una riunione a Botteghe Oscure, un infervorato Pietro Secchia viene bruscamente interrotto da Palmiro Togliatti che gli chiede: “Che cosa ha fatto ieri la Juventus?”. Il responsabile dell’organizzazione del Pci, visibilmente imbarazzato, tace. Allora il Migliore lo apostrofa, gelido: “E tu pretendi di fare la rivoluzione senza conoscere i risultati della Juve?”. Come a dire, senza conoscere gli umori del popolo a cui chiedi di insorgere? Il capo del Partito comunista, tifoso della “Vecchia Signora”, rimproverava così al suo vice di misconoscere l’importanza di un fenomeno di massa come il calcio, eletto dal fascismo a sport nazionale, in grado di influenzare mentalità e costumi dei ceti popolari.

Un punto, questo, che aveva catturato l’attenzione di Antonio Gramsci già all’alba Novecento. Lo testimonia “Il foot-ball e lo scopone”, un celebre articolo pubblicato il 16 agosto 1918 sull’Avanti!. D’altro canto, come ha messo in luce Guido Liguori, la Torino in cui viveva il pensatore sardo era stata, insieme a Genova, la culla del gioco del calcio in Italia (Una palla di cartapesta, in “Lancillotto e Nausica, XIV, 2-3, 1997). A Torino fra il 1887 e il 1890 era nata la prima società calcistica; sempre nella città sabauda, nel 1898, era stata fondata la Federazione italiana di football, che vi aveva avuto la sua prima sede. Ancora a Torino, nello stesso anno, in un’unica giornata (8 maggio) si era disputato il primo campionato fra tre squadre torinesi (Internazionale, Ginnastica Torino e F. C. Torinese) e il Genoa. E infine a Torino, nel 1897, due anni prima della Fiat, era nata la Juventus ad opera di alcuni allievi di quel liceo D’Azeglio frequentato anche da amici e maestri di Gramsci. Juventus che nel 1905 aveva vinto il suo primo titolo.

Quando Gramsci si interessa di football, dunque, lo fa da una postazione privilegiata, in un momento in cui il pallone stava conquistando folle di appassionati, tanto da permettere la creazione di una Lega di squadre amatoriali, con centinaia di iscritti in tutta la penisola. Il calcio, insomma, stava assumendo una dimensione di massa che era impossibile ignorare. Fin dall’incipit del suo articolo, il futuro fondatore del Pci affronta la questione che più gli sta a cuore: “Gli italiani amano poco lo sport; gli italiani allo sport preferiscono lo scopone. All’aria aperta preferiscono la clausura in una bettola-caffé, al movimento la quiete intorno al tavolo”. E, dopo aver redarguito i suoi connazionali per la loro sedentarietà, celebra il calcio come una metafora della società liberale: “Osservate una partita di foot-ball: essa è un modello della società individualistica: vi si esercita l’iniziativa, ma essa è definita dalla legge; le personalità vi si distinguono gerarchicamente, ma la distinzione avviene non per carriera, ma per capacità specifica; c’è il movimento, la gara, la lotta, ma esse sono regolate da una legge non scritta, che si chiama ‘lealtà’, e viene continuamente ricordata dalla presenza dell’arbitro. Paesaggio aperto, circolazione libera dell’aria, polmoni sani, muscoli forti, sempre tesi all’azione”.

Sono considerazioni in linea con la pedagogia proletaria del tempo, la quale sconsigliava agli operai di frequentare osterie piene di fumo e li invitava, invece, a praticare sport all’aria aperta -come anche l’escursionismo e il ciclismo- per salvaguardare la propria salute, messa a dura prova dalle infernali condizioni del lavoro di fabbrica. Per altro verso,  sono  considerazioni che alludono chiaramente alla realtà britannica, realtà liberale per antonomasia e terra che aveva dato i natali al calcio moderno, codificandone comportamenti e regole. È noto come il giovane Gramsci -almeno fino allo studio dei classici del marxismo- abbia nutrito il proprio ribellismo, sulla scia di Gaetano Salvemini e dei socialisti di sinistra, di una forte venatura liberoscambista, in cui vedeva una leva per scardinare l’asfissiante blocco di interessi che il protezionismo e lo Stato giolittiano tutelavano a scapito delle zone più arretrate del paese. Infatti, i dazi doganali avevano gravemente impoverito le popolazioni del Mezzogiorno, a cui era di fatto vietato comprare prodotti proveniente dall’estero che costavano molto meno di quelli prodotti nel Nord. Erano gli anni in cui un vasto movimento intellettuale, guidato da uomini come Croce, Gentile, Prezzolini, Papini, scuoteva la cultura nazionale opponendosi all’imperante positivismo evoluzionistico. Come ebbe a scrivere più tardi parlando di Umberto Cosmo, italianista e studioso di Dante, del quale era stato allievo all’Università e che aveva insegnato presso quel liceo D’Azeglio che occupa un posto di rilievo anche nella storia del nostro calcio, “mi pareva (…) ci trovassimo in un terreno comune che era questo: partecipavamo in tutto o in parte al movimento di riforma morale e intellettuale promosso in Italia da Benedetto Croce”. Non deve sorprendere, pertanto che egli vedesse nella liberale Inghilterra un modello di economia aperta e dinamica. E che vedesse nel football l’esaltazione un po’ vitalistica di forze che non cercano di vincere con l’imbroglio e la corruzione così tipici del sistema di potere giolittiano, ma che competono onestamente per superare l’avversario.

Tutt’altra cosa, invece, è “una partita a scopone. Clausura, fumo, luce artificiale. Urla, pugni sul tavolo e spesso sulla faccia dell’avversario o… del complice. Lavorío perverso del cervello(!). Diffidenza reciproca. Diplomazia segreta. Carte segnate. Strategia delle gambe e della punta dei piedi. Una legge? Dov’è la legge che bisogna rispettare? Essa varia da luogo a luogo, ha diverse tradizioni, è occasione continua di contestazione e di litigi. La partita a scopone ha spesso avuto come conclusione un cadavere e qualche cranio ammaccato. Non si è mai letto che in tal modo si sia mai conchiusa una partita di football”. Quest’ultima notazione è quella che più oggi balza agli occhi per la sua imprecisione, e non solo alla luce delle magagne più recenti del mondo calcistico. Perché Gramsci, se fosse stato un conoscitore più profondo della storia del calcio, avrebbe saputo non solo dei tanti episodi di violenza già verificatisi nel Regno Unito, ma anche che il primo campionato italiano era stato il teatro di due risse violente tra i supporter delle squadre in campo. Inoltre, come le cronache dell’età repubblicana si sarebbero incaricate di mostrare, anche nel calcio avrebbero trovato largo spazio “diplomazie segrete” e “carte segnate”, ovvero pastette e imbrogli. A Gramsci, però, premeva altro. Il football e lo scopone per lui  simboleggiavano due modi diversi di concepire la modernità: il primo espressione della moderna società capitalistica, il secondo frutto di una società statica, clientelare e maramalda.

Come chiarisce nel suo articolo: “Anche in queste attività marginali degli uomini si riflette la struttura economico-politica degli Stati. Lo sport è attività diffusa delle società nelle quali l’individualismo economico del regime capitalistico ha trasformato il costume, ha suscitato accanto alla libertà economica e politica anche la libertà spirituale e la tolleranza dell’opposizione. Lo scopone è la forma di sport delle società arretrate economicamente, politicamente e spiritualmente, dove la forma di convivenza civile è caratterizzata dal confidente di polizia, del questurino in borghese, dalla lettera anonima, dal culto dell’incompetenza, dal carrierismo (con relativi favori e grazie del deputato). Lo sport suscita anche in politica il concetto di gioco leale. Lo scopone produce i signori che fanno mettere alla porta del principale l’operaio che nella libera discussione ha osato contraddire il loro pensiero”.

In questo brano, dunque, lo scopone è assunto a simbolo dell’Italia giolittiana, tutta trucchi e inganni, violazione delle regole e delle leggi, puro arbitrio (in mancanza di un arbitro). Nel 1932 Gramsci cambierà però opinione. Nello scritto Miscellanea e note sul Risorgimento italiano (contenuto nei Quaderni dal carcere), sferra un deciso attacco ai partiti politici rei di aver favorito un “apoliticismo delle classi subalterne”. Questo apoliticismo antidemocratico e nemico della libertà, era il frutto “del pressappoco della fisionomia dei partiti tradizionali, il pressappoco dei programmi e delle ideologie” che aveva consentito il tenace radicamento di “campanilismi e altre tendenze che di solito sono catalogate come manifestazioni di un così detto spirito rissoso e fazioso”. Un tale “primitivismo è stato superato dai progressi della civiltà”, ma “ciò è avvenuto per il diffondersi di una certa vita politica di partito che allargava gli interessi intellettuali e morali del popolo”. Venuto meno questo circolo virtuoso, i municipalismi “sono rinati, per esempio attraverso lo sport e le gare sportive, in forme spesso selvagge e sanguinose”.

Quindici anni dopo l’articolo sull’Avanti!, Gramsci puntava ora il dito sulle degenerazioni del tifo da stadio, emerse chiaramente con l’avvento del fascismo e con la conseguente statalizzazione dello sport, spegnendo l’impegno politico e sindacale. La retromarcia di Gramsci — parte di una più ampia opposizione al regime mussoliniano che pagherà con la reclusione — non era isolata e trovava una sponda illustre proprio in  Benedetto Croce, in quegli stessi anni pronto a definire lo sport, nella sua Storia d’Europa nel secolo decimonono, un vero e proprio “traviamento dello spirito”. Questa retromarcia sul calcio era stata preceduta da una riabilitazione dello scopone maturata durante la sua prigionia. Arrestato l’8 novembre 1926, in aperta violazione della sua immunità parlamentare, e confinato in un primo tempo a Ustica dove rimarrà dal 7 dicembre al 20 gennaio dell’anno seguente, il leader comunista farà parte di una nutrita colonia di politici. Costretti a trascorrere nell’ozio forzato gran parte della giornata, dovevano industriarsi per ingannare il tempo, lontani com’erano dalle famiglie e dalla vita civile. In una lettera alla moglie Giulia (15 gennaio 1927), Gramsci confessa: “In casa, alla sera, giuochiamo alle carte. Non avevo giuocato mai finora; il Bordiga assicura che ho la stoffa per diventare un buon giocatore di scopone scientifico”.

Del resto, se quest’ultimo dopo la Liberazione ha avuto tra i suoi innumerevoli cultori, accanto a letterati e intellettuali prestigiosi come Pirandello e Mario Soldati, importanti uomini politici (tra gli altri, Pertini, Andreotti, Berlinguer, La Malfa, Lama, Pajetta, Ciampi), una ragione deve pur esserci. Non solo perché, a differenza di quanto credeva Gramsci,  tra tutti i giochi di memoria e di ragionamento è forse il più avvincente e complesso: “d’ingegno e virtuoso”, come lo ha definito Paolo Monelli. Ma perché, come recita l’ultima regola di Chitarella: “[…] philosophia scoponis est in longiquum spectare et ultra lucrum proximum remotos exitus considerare” (la filosofia dello scopone sta nel guardare e considerare, al di là del vantaggio immediato, il risultato finale).

Se sei dotto insegna, se sei santo prega, se sei prudente governa, ammoniva san Paolo. In questo senso, lo scopone scientifico, suggeriva Oscar Mammì, suo eminente teorico, dovrebbe essere insegnato nelle scuole di buona politica come materia obbligatoria. Sventuratamente -concludeva con l’ironia che gli era congeniale- queste scuole non sono mai state aperte. È vero: di Chitarella, il padre dello scopone, non si sa nulla. In una missiva del 25 febbraio 1946 a Croce, il giornalista e storico napoletano Gino Doria ammette di aver investigato sulla sua misteriosa identità ricavandone solo la conferma di una vecchia quanto scarna tradizione locale, secondo cui sarebbe stato un prete partenopeo vissuto nel diciottesimo secolo. Ma che importa? Importa che il secolo dei Lumi ci abbia dato non solo i sacri principi del 1789 (che sono stati sempre violati), ma anche le quarantaquattro regole di Chitarella (che invece non si possono mai violare).

 

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