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Fassino, lo stipendio dei parlamentari e la grillanza

Piero Fassino e lo stipendio dei parlamentari. I fatti e le polemiche fra storia e cronaca. La nota di Paola Sacchi

 

Era quarant’anni fa, il 4 agosto 1983. Nasceva il governo Craxi, il governo più longevo della tanto deprecata Prima Repubblica, che dopo la ricostruzione del Dopoguerra segnava il suo più grande successo. L’Italia nel G7, quinta, poi quarta potenza mondiale, davanti alla stessa Gran Bretagna. Fu il governo delle grandi riforme, dalla revisione del Concordato al decreto di S. Valentino che salvò l’Italia dall’inflazione galoppante, all’installazione degli euromissili a Comiso, in asse con l’Occidente e gli Usa, con i quali però lo statista socialista si rapportò alla pari, alleati leali sì, ma non sudditi. Sigonella fu il punto più alto dell’affermazione della nostra sovranità nazionale.

La parabola di quel leader, di statura alta come le sue visioni politiche e dall’aria decisa e risoluta, si concluse sotto il maglio di “mani pulite”. 30 aprile 1993, stop con quell’Italia la cui economia cresceva, dove il made in Italy rappresentato dalla moda era, con tutto il resto, il nostro fiore all’occhiello nel mondo. Certamente non era l’eden e Craxi già metteva in guardia su una serie di problemi all’orizzonte, da quello delle riforme istituzionali per lo snellimento delle procedure decisionali, a quello dell’immigrazione. Le monetine al Raphael, la violenta aggressione svoltasi dopo la manifestazione del Pds a Piazza Navona, a due passi da quella che era la residenza privata dell’ex premier e leader socialista (un giorno chissà se sarà data una spiegazione del perché proprio a piazza Navona fu organizzata quell’iniziativa dei post-comunisti) segnarono la nascita del grillismo. Che debuttò sotto forma di quello che Craxi definì “squadrismo”. Soprattutto rosso, tant’è che disse agli aggressori: “Tiratori di rubli”. Ma in misura molto più ridotta lì c’era anche qualche militante del Msi, un partito peraltro di ben più piccole dimensioni di quello degli eredi del Pci.

Craxi per primo e unico aveva sollevato nel ’92  in aula a Montecitorio il problema del costo della politica, in quel famoso discorso sul finanziamento irregolare ai partiti in cui sfidò tutti i partiti a dire se non avessero mai ricevuto in vita loro sostegni illegali. L’aula restò muta. E lui divenne il capro espiatorio di quella che definì, poi da Hammamet, “falsa rivoluzione, devastazione dello Stato di Diritto”. Che provocò, riferendosi ai risultati del suo governo: “Perdita di ogni prestigio su scala europea, mediterranea, mondiale dell’Italia”, quel prestigio “frutto di un grande lavoro, coronato da un successo senza precedenti dal Dopoguerra in poi”.

Craxi ancora oggi da certa vulgata di stampo grillino, purtroppo trasversale da sinistra innanzitutto a settori di destra, è ritenuto l’unico responsabile del debito pubblico. Una bufala smontata da fior di economisti che in alcuni testi invitano chi continua a ignorare la materia a tener conto anche del fatto non indifferente che vennero scorporati Ministero del Tesoro e Banca d’Italia. Ora, dopo tutti gli anni che questo Paese ha impiegato a rialzare la testa in seguito a quello che Craxi definì “golpe post moderno”, stessa definizione poi data da Silvio Berlusconi, dopo che lo stesso presidente emerito Giorgio Napolitano, ex “migliorista” del Pci, disse, per il decimo anniversario della morte a Hammamet, in un telegramma alla signora Anna Craxi, che per l’ex premier e leader del Psi sul piano giudiziario si usò “una durezza senza uguali”, passati più di trent’anni, in Italia l’anti-politica di stampo grillino tiene ancora banco nel dibattito parlamentare. E questo nonostante che i Cinque Stelle siano stati bocciati dagli italiani alle Politiche di quasi un anno fa e alle Regionali. Accade, come per un contrappasso della storia, che Piero Fassino, deputato del Pd, ex proprio di quel Pci-Pds-Ds, il principale partito avversario di Craxi, viene duramente attaccato dal suo stesso partito, a cominciare dalla segretaria Elly Schlein.

Fassino è reo di aver esibito in aula il legalissimo cedolino dell’indennità di parlamentare, dicendo: “Va bene, ma non è uno stipendio d’oro”. Fassino, che peraltro è stato l’unico a suo tempo in quel partito a riconoscere coraggiosamente che Enrico Berlinguer non aveva il riformismo di Craxi, è stato ieri oggetto sui social di scherno di un’ondata “grillina” trasversale, da sinistra, come è più naturale che sia, vista anche la radicalizzazione crescente del suo partito, a settori di destra. Ci ha pensato l’economista della Lega, Claudio Borghi Aquilini,  parlamentare molto distante per storia politica da Fassino, a spiegare  con una serie di tweet voce per voce, con informazioni dettagliatissime, perché è vero quello che ha avuto il coraggio di dire Fassino: quello è un ottimo stipendio, ma non d’oro. Borghi ha anche invitato in un altro tweet anche qualche alto dirigente di Bankitalia “a sventolare il cedolino”. Verrebbe da pensare, e senza polemica, a questo punto anche a quello di alti magistrati.

A trent’anni di distanza da “mani pulite”, a 40 anni dal governo Craxi, il più stabile della Prima Repubblica, la politica viene ancora vista come una sorta di attività equivoca, una sorta di non lavoro, il cui compenso dovrebbe essere equivalente a quello di altri lavori che comportano meno responsabilità di fronte all’intero Paese. Insomma, in perfetto spirito revanchista da invidia sociale, contro ogni criterio di meritocrazia, uno vale uno. Quella che Borghi Aquilini attacca come “la grillanza”, purtroppo ancora imperante, anche laddove non te l’aspetti. Solo che in politica, e non solo, alla fine vince sempre l’originale, a proposito di un Pd all’inseguimento costante ormai dei Cinque Stelle, che naturalmente, in tutto questo, esultano.

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