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Scacchi

Gli scacchi di Borges e la democrazia digitale

Il Bloc Notes di Michele Magno

Vulnerabile re, mobile torre, spietata
regina, pedone accorto e sinistro alfiere
sul cammino di caselle bianche e nere
cercano e combattono la loro battaglia cruenta.

Non sanno che la precisa mano
del giocatore dispensa il loro destino,
non sanno che un rigore adamantino
sottomette il loro arbitrio e il quotidiano.

Ma anche il giocatore è in una voliera
(la sentenza è di Omar) su un’altra scacchiera
di nere notti e bianchi giorni.

Dio muove il giocatore che gli ordini impartisce.

Quale Dio prima di Dio la trama ordisce
di polvere e tempo e agonie e sogni?

 

(Jorge Louis Borges)

 

Secondo Mauro Ruggiero (“L’Italia scacchistica”, 2005), non è azzardato dare una interpretazione politica a questa lirica di Borges. I vari pezzi della scacchiera, infatti, possono essere paragonati alle classi sociali sempre presenti nella storia dell’umanità. In effetti, soprattutto nella versione europea del gioco diffusasi in pieno Medioevo, la sua struttura piramidale va dal pedone (dallo spagnolo “peòn”), il semplice soldato-operaio, fino al sovrano. Ma tutti (compreso l’alfiere, che rappresenta il clero), combattono fianco a fianco. Il fine, infatti, è comune. E tutti sono soggetti alle stesse regole di vita e di morte, indipendentemente dalla posizione occupata nella scala gerarchica.

Nella seconda strofa, invece, i pezzi diventano mere figure di legno docili ai disegni e alla volontà dei giocatori, le cui scelte ne determinano il destino. Tuttavia, anche il giocatore è prigioniero su un’altra scacchiera, quella del volere di una divinità che ne limita il suo libero arbitrio e stabilisce la sua sorte. Perché, come diceva il poeta persiano del XII sec. Omar Khayyam, “Noi siamo i pedoni della misteriosa partita a scacchi giocata da Dio. Egli ci sposta, ci ferma, ci respinge, poi ci getta uno a uno nella scatola del nulla.”

A questo punto il tema centrale della poesia si manifesta con una domanda che non avrà risposta; una domanda che richiama grandi dilemmi del pensiero filosofico e religioso. Chi è il Dio che prima di Dio dà inizio alla partita? Chi è cioè il giocatore che gioca a scacchi con Dio stesso e la cui scacchiera è l’universo? Borges raffigura nei suoi versi l’intero universo come una serie infinita di scacchiere contenuta l’una nell’altra, e i cui pezzi sono a loro volta burattini e burattinai di un’altra partita.

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Filadelfia, 10 febbraio 1996: il supercomputer Ibm Deep Blue sconfigge per la prima volta il campione mondiale di scacchi Garry Kasparov (che nelle cinque partite successive, però, ne vincerà tre pareggiando le altre due). Dotato di un algoritmo capace di calcolare cento milioni di posizioni al secondo, era una derivazione del progetto “Deep Thought” sviluppato dall’informatico cinese Feng-hsiung Hsu. La metropoli della Pennsylvania fu così la sede di un piccolo miracolo, che lasciò tuttavia perplesso il maestro russo. Kasparov, infatti, aveva notato nelle mosse del suo competitore meccanico una creatività di tipo umano. Il sospetto di un “aiutino” esterno fu rafforzato quando si seppe che il computer non era collocato vicino alla sala nella quale si disputava la gara, ma ad alcuni chilometri di distanza. Inoltre, non furono mai resi noti i tabulati dei calcoli di Deep Blue. Perché, come poi ammise lo stesso Feng-hsiung Hsu in un libro autobiografico, i tecnici modificavano il suo software durante le partite per adattarlo alle strategie dell’avversario.

La macchina che vince nel più nobile e più complesso dei giochi, gli scacchi, è un sogno che affonda le sue radici nel Settecento, nel corso di quella esplosione scientifica e tecnica che pose le basi della rivoluzione industriale. Fu allora che nacquero gli automi, i quali eseguivano movimenti preordinati e di grandissima precisione, come “Il Flautista” di Jaques Vaucanson (1738). Per vederlo all’opera i parigini facevano code chilometriche pagando ben tre lire di ingresso, pari alla paga settimanale di un operaio del tempo. Ma l’invenzione che suscitò un entusiasmo indescrivibile in tutta Europa fu proprio un giocatore artificiale di scacchi. Nella Vienna fastosa e frivola della seconda metà del diciottesimo secolo, la corte dell’imperatrice Maria Teresa era un teatro in cui si esibivano illusionisti, medium e maghi di ogni risma. Dopo aver assistito ad uno spettacolo di prestigiatori, l’imperatrice esortò un suo consigliere, esperto in meccanica e idraulica, a creare un gioco specialissimo in grado di stupire una nobiltà sempre a caccia di nuove emozioni.

Questo consigliere era il barone Wolfgang Von Kempelen, nativo di Pressburg (l’attuale Bratislava). Nel 1770 von Kempelen presentò il frutto del proprio lavoro. Si trattava di un fantoccio di foggia orientale, seduto su una grande cassa di legno e che fumava proprio come… un turco! Davanti a sé il pupazzo aveva una scacchiera, e riusciva a battere regolarmente tutti gli avversari scelti di persona dalla sovrana. Un successo subito seguito da una trionfale tournèe nelle principali capitali europee ed in Russia, in cui “il Turco” (come venne ribattezzato il pupazzo meccanico) prevalse, tra gli altri, su Giorgio III, Benjamin Franklin, Napoleone e Federico II di Prussia. Studiosi, matematici e persino alcuni esorcisti esaminarono l’automa per carpirne il segreto, ma senza esito. L’alone di mistero che circondava la strana macchina di von Kempelen alimentava le leggende più strampalate: c’era chi affermava che fosse posseduta da uno spirito maligno, mentre altri mormoravano che il barone avesse venduto l’anima al diavolo.

Dopo la morte di von Kempelen (1784), i figli vendettero l’automa a Johann Maelzel, il celebre inventore del metronomo, per l’astronomica cifra di trentamila franchi. Questi proseguì le esibizioni in tutta Europa fino al 1811, quando Eugenio de Beauharnais lo acquistò senza badare a spese. Scoperta la reale natura del congegno, il principe denunciò Maelzel per truffa. L’automa infatti, non era affatto un prodigio tecnologico, ma un astuto imbroglio: era semplicemente azionato nell’interno da un giocatore di piccola statura, che si occultava abilmente dietro gli ingranaggi. Durante la partita, i movimenti dei pezzi sul tavolo gli venivano segnalati da piccoli magneti, in modo da poterli riprodurre su una scacchiera tascabile, per poi rispondere manovrando il braccio mobile del pupazzo. Il trucco funzionò anche negli Stati Uniti (dove si era rifugiato Maelzel), fino a quando una serie di incidenti diede inizio a quella che i giornali dell’epoca chiamarono pittorescamente “la maledizione del Turco”: due bambini videro un corpo mingherlino che usciva dalla cassa dopo lo show, mentre il deduttivo Edgar Allan Poe scrisse un articolo dove raccontava che c’era una donna minuta che appariva in sala prima e dopo lo spettacolo, ma mai durante.

Kempelen e Maelzel disponevano sicuramente di uno straordinario potere di persuasione, di cui si servivano per guadagnare fama e denaro. Oggi, invece, ben altri sofisticati strumenti forniti dalla rivoluzione informatica trasformano l’ingenuità e la meraviglia delle masse in poderosi meccanismi di consenso. Oggi, inoltre, gli inganni visivi e la disinvolta diffusione, attraverso i social network, di notizie false spacciate per verità incontrovertibili condizionano fortemente la battaglia delle idee e la stessa lotta politica. Non è solo un fenomeno italiano, ma da noi ha un’aggressività e una virulenza del tutto particolari. Riflettiamoci bene. La democrazia digitale può giocare brutti scherzi alla democrazia rappresentativa, violando uno dei princìpi fondamentali dello Stato di diritto: la visibilità del potere e la controllabilità del suo esercizio.

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