L’appello del segretario della Cgil Maurizio Landini a dar vita ad un patto sociale “per evitare che il paese si sbricioli sotto i colpi di una processo di deindustrializzazione“ fa il paio con l’invito di Matteo Salvini a “mettersi tutti attorno ad un tavolo per riflettere sui rischi che l’Italia sta vivendo”.
Gli obiettivi dichiarati sono diversi ma le considerazioni assai simili. Landini vede la possibilità di entrare tra gli azionista di maggioranza di uno schieramento politico che ha bisogno di alleati mentre Salvini vorrebbe una tregua per risolvere i problemi più urgenti e poi tornare a votare. Entrambe queste posizioni potrebbero avere al momento solo natura tattica.
Il segretario della Cgil vorrebbe una legislazione del lavoro completamente riscritta che parta dall’eliminazione del Job’s Act e l’applicazione (frettolosa) dell’articolo 39 della Costituzione che riconosce ai contratti sottoscritti dalla maggioranza di sindacati e imprenditori efficacia di legge. Non entra però nel merito con proposte concrete anche per gli articoli 40 e 46 della Suprema Carta che parlano di regolamentazione dell’esercizio del diritto di sciopero e e di partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese.
Da parte sua il “Capitano” della Lega non è esplicito sulle soluzioni da offrire per le più gravi emergenze. C’è però una differenza non di poco conto perché la Lega fa trapelare il nome dell’ex governatore della Bce Mario Draghi, il quale, da fine diplomatico, si guarda bene dal mandare segnali di riscontro. Maurizio Landini non è certo ostile allo status quo ma pone condizioni difficilmente ricevibili nella loro sostanza.
L’unica cosa chiarissima è che, pur offrendo disponibilità di natura diversa, si rendono conto che la situazione potrebbe precipitare, Il clima è quello di una situazione di emergenza che dalle crisi aziendali potrebbe allargarsi al sistema bancario e mettere in ginocchio per l’intero sistema economico-finanziario.
Non è la prima volta che il nostro paese ricorre a governi di unità nazionale. Se si escludono i governi del Cln, che furono travolti dalla guerra fredda, abbiamo esempi molto più recenti come quello di Andreotti del 1978 e di Monti del 2011. È altrettanto evidente che mettersi tutti (o quasi) al tavolo, comprese le forze sociali, significa partire dalla consapevolezza che la situazione è molto grave.
Non si tratta solo di una diffusa crisi industriale che ha come epicentro l’Ilva di Taranto o della bancarotta di istituti di credito come la popolare di Bari ma del rischio di un imminente ritorno dello spread sui nostri titoli di Stato in uno scenario che in cui permane un enorme debito pubblico, accompagnato da una crescita debolissima del Prodotto interno Lordo e da un’impennnata preoccupante della cassa integrazione nelle aree industriali del nord. Possiamo avere molte ragioni di accusare la Germania o l’Unione europea di frenare la crescita italiana ma siamo noi per primi a dover dimostrare di essere in grado di invertire la tendenza in atto. Prima che le cose precipitino e il paese si ritrovi di fronte a emergenze drammatiche, sarebbe saggio fermarsi a riflettere.
È parimenti sicuro che una svolta di questo genere avrebbe bisogno non solo di un vasto consenso delle forze politiche e sociali ma anche di una guida autorevole che oggi è difficile da rintracciare tra i leader di partito. E ciò soprattutto perché un programma di risanamento e di sviluppo dovrebbe verosimilmente partire da misure almeno in parte impopolari come ad esempio la cancellazione del reddito di cittadinanza e della “quota 100” o almeno una loro revisione sostanziale.
Si dovrebbe abbandonare luoghi comuni come quello che vede gli italiani come un popolo indistinto di poveri. La stessa “neutralizzazione totale” dell’aumento dell’Iva dovrebbe probabilmente essere rivista selettivamente, e la lotta all’evasione dovrebbe essere oggetto di una profonda riflessione. La spending review dovrebbe essere affrontata con realismo e gradualità ma fatta sul serio. Infine i principi del riconoscimento del merito, della professionalità e della responsabilità dovrebbero divenire il motore del riordino della pubblica amministrazione e della sua sburocratizzazione. Per non parlare dell’irrisolta questione di un corretto rapporti tra politica e magistratura o del rischio che vicende internazionali possano riaccendere flussi migratori non governabili. Il guaio è che oggi non si vede all’orizzonte un “governo del risanamento e per lo sviluppo”.
L’insieme delle forze politiche, di maggioranza e di opposizione, non sono in condizione di garantire questa svolta perché la gran parte del parlamento ha sostenuto proprio quelle scelte che hanno aggravato la situazione. Per essere credibile un governo che volesse avviare un reale cambiamento, oggi dovrebbe essere guidato da una figura di prestigio, di riconosciuta integrità morale e alta capacità professionale da cui il paese potrebbe accettare anche scelte impopolari. Del resto, se “il nemico è alle porte” occorre essere conseguenti e fare scelte di responsabilità nell’interesse generale.
Può darsi che la svolta di Salvini sia un espediente tattico che svanisce nel nulla ma potrebbe anche essere la consapevolezza che non basta chiedere al governo Conte di “andare a casa” o continuare a chiedere al Presidente della Repubblica di sciogliere le Camere.
Pur ammettendo che i sondaggi siano realistici, una Lega vincente sul terreno elettorale correrebbe il rischio di non garantire la governabilità e di essere travolta da un’eredità assai difficile (forse impossibile) da gestire considerato tutto quanto è stato detto (e fatto) anche in tempi recenti. Meglio condividere con qualcun altro la patata bollente, mantenendo comunque un ruolo di primo piano perché tutto dovrà comunque passare dal Parlamento. Meglio ancora assumersi il merito di indicare in anticipo la soluzione. Se non fosse solo tattica sarebbe un atto di responsabilità interessata e una scommessa sul futuro. La soluzione “B” deve sempre esserci.