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Giorgetti

Giustiziati i referendum sulla giustizia

I Graffi di Damato

Un po’, anzi un po’ troppo “a scoppio ritardato”, come il manifesto forse non a torto ha definito le proteste levatesi in Italia contro i soli tredici anni che l’Europa vorrebbe lasciarci di tempo per non avere più macchine nuove a benzina o a nafta da potere acquistare, Matteo Salvini si è ricordato di avere promosso con i radicali i cinque referendum sulla giustizia per i quali si voterà dopodomani, in contemporanea con le elezioni amministrative in un migliaio di Comuni. E si è guadagnato qualche titolo o richiamo di prima pagina con un appello al Quirinale e a Palazzo Chigi a “rompere il silenzio” caduto sulla campagna referendaria, a rischio di fallimento per scarsa affluenza alle urne, inferiore alla metà più uno degli aventi diritto al voto ancora necessaria costituzionalmente per renderne valido il risultato.

In questa campagna referendaria si è invece speso molto, sino al pannelliano sciopero della fame, il vice presidente leghista del Senato Roberto Calderoli, praticamente bollato dal solito Marco Travaglio sull’altrettanto solito Fatto Quotidiano come partecipe di quel mondo di “criminali” cui davvero interesserebbero le prove abrogative per le maggiori possibilità offerte loro di scampare agli arresti che meritano. Che poi in Italia su 55 mila detenuti siano più di ottomila quelli in attesa del primo giudizio e più di settemila quelli in attesa dei gradi successivi, prima di poter essere definitivamente discolpati o condannati, a Travaglio e simili evidentemente interessa poco, o niente. E sarebbe persino auspicabile che questi numeri crescessero ancora con la sconfitta o il naufragio dei referendum così a lungo dimenticati dallo stesso Salvini, impegnatosi su altri fronti politici da un bel pò di settimane e mesi.

Persino della comune appartenenza al centrodestra, comprensivo anche della ormai concorrente Giorgia Meloni, meglio piazzata di lui e di Silvio Berlusconi nella corsa a Palazzo Chigi quando finalmente saranno rinnovate le Camere elette nel 2018, Salvini si è ricordato solo ieri sera partecipando a Verona ad una manifestazione neppure del tutto unitaria. Nella città scaligera infatti i due hanno un comune candidato a sindaco, diverso da quello sostenuto da Berlusconi, che è l’ex sindaco leghista in un certo senso storico, a lungo più noto a livello nazionale dello stesso Salvini: Flavio Tosi.

Le distrazioni, chiamiamole così, di questi ultimi giorni, ma anche le delusioni procurategli nel partito dalle riserve per la sua smania, nelle settimane scorse, di correre a Mosca per sostenere una pace in Ucraina praticamente più favorevole al Cremlino che a Kiev, con cui invece è schierato il governo di Mario Draghi a forte partecipazione leghista, hanno fatto perdere a Salvini l’occasione, non sfuggita invece in qualche senso a Lucia Annunziata sulla prima pagina della Stampa, di fare particolarissimi aiuti di compleanno a Putin. Che è tornato ieri a richiamarsi come modello a Pietro il Grande, del quale ricorrevano i ben 350 anni dalla nascita.

Ora, scherzi a parte su un terreno peraltro così scivoloso come quello della guerra in Ucraina, dove non passa giorno senza che i russi non spargano altro sangue innocente in una terra che hanno invaso, non so neppure sino a che punto il ritrovato interesse di Salvini per i referendum di domenica sulla giustizia potrà rivelarsi utile ad un loro risultato positivo, che possa servire quanto meno di stimolo ad una successiva azione legislativa in sede parlamentare. Forse al punto in cui si era ormai spinto nel disinteresse, coerente con gli anni leghisti del cappio nell’aula di Montecitorio, cui appendere gli indagati per finanziamento illegale dei partiti della cosiddetta prima Repubblica, Salvini conveniva silente anche al compagno di partito Calderoli, oltre che ad Emma Bonino, l’icona radicale dichiaratamente polemica con lui.

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