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Il giornalismo è morto? Viva il branded journalism (dicono pure al Fatto Quotidiano)

Cosa ci fanno giornalisti e direttori di giornali in grado di far tremare la politica, le maggioranze di governo e persino il Vaticano al Brand Journalism Festival? La lettera di Francis Walsingham

Caro direttore,

so che mi recrimini sempre di dare lezioni di giornalismo a destra e a manca anche se nella vita ho fatto tutt’altro.

Ma, come sai, amo osservare, analizzare e… commentare.

So anche che ritieni che io abbia un’opinione troppo bassa della tua categoria. Ma questa volta voglio stupirti. Voglio darti uno scappellotto bonario sulla nuca perché credo che tu, che ancora ti intestardisci a non fare interviste più o meno azzerbinate a imprenditori, top manager e capitalisti vari e avariati, non hai semplicemente capito nulla di dove stia andando la tua professione! E ti voglio aiutare prima che sia troppo tardi, perché il giornalismo è morto. Bisogna cambiare strada.

E non mi riferisco alle insidie dell’Intelligenza artificiale: è vero, probabilmente verrete spazzati via tutti, presto o tardi, da questi instancabili algoritmi che produrranno notizie così come vogliono i loro editori o come esigono gli sponsor. No: io mi riferisco al branded journalism, che onestamente fino a poco tempo fa conoscevo solo con un altro nome, assai poco lusinghiero. Ma sai, a noi italiani piacciono gli inglesismi, specie se aiutano a nascondere la polvere sotto il tappeto.

Ecco, io pensavo che certi accordi si facessero quasi di nascosto, sottotraccia e che solo voi addetti ai lavori riusciste a sgamarli (proprio su Start vi divertite a farlo ogni volta che se ne presenta l’occasione). Invece, com’è giusto che sia, le acque carsiche marchettare sono state portate alla luce per dare modo al lettore di essere pienamente informato.

Esiste addirittura – e lo ignoravo finché l’Adnkronos non ha iniziato a parlarne ciclicamente – un Brand Journalism Festival che si è tenuto il 12 novembre a Roma. “In un’atmosfera collaborativa e ispirazionale – il lancio dell’evento che ho letto sempre sul sito dell’Adnkronos – si riuniranno editori, aziende, giornalisti, decision maker, esperti della comunicazione di marca, appassionati del mondo dell’informazione e professionisti della comunicazione per analizzare l’evoluzione del mondo dell’editoria, del giornalismo e della corporate communication“.

Che bello, direttore! Una kermesse sul giornalismo fatto di sponsorizzazioni, come le tute zeppe di adesivi dei piloti della Formula 1, organizzata da tale Ilario Vallifuoco, promotore del Brand Journalism Festival e Ceo di Social Reporters, “startup specializzata in Brand Journalism e Live Communication”. Ai miei tempi, direttore, c’erano le testate. Oggi le startup che fanno ‘communication’. Sono vecchio…

Al Fatto Quotidiano Vallifuoco ha raccontato: “Da tempo desideravo organizzare un evento del genere per esplorare i nuovi trend dei formati digitali, analizzare l’evoluzione del mondo dell’editoria e del giornalismo aziendale”, ha spiegato lo startupper. “Il festival sarà un momento di osservazione e di discussione tra professionisti, tutti con sensibilità diverse – conclude – che approfondiranno una tematica che esiste da anni, ma che va disambiguata in un’ottica di democratizzazione, permettendo a tutti di avere gli strumenti adatti per verificare la veridicità delle notizie e sviluppare un pensiero critico“.

Ma la ragione del mio bonario scappellotto è che non ti trovo tra i partecipanti. Vuoi sapere chi è salito sul palco? Non fare quella faccia di chi gliene frega nulla perché io tanto i nomi te li dico lo stesso: abbiamo Peter Gomez, direttore de Il Fatto Quotidiano online e condirettore del Fatto cartaceo; Emiliano Fittipaldi direttore del quotidiano Domani; Fabio Insenga, vicedirettore di AdnKronos; Francesco Cancellato direttore di Fanpage.it e Annalisa Cuzzocrea vice direttrice de La Stampa. C’è stato pure – non chiedermi perché – Walter Ricciardi, docente all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma, consulente del ministro alla Salute Roberto Speranza negli anni bui della pandemia.

Assieme a professionisti dell’informazione (più Ricciardi) che hanno scritto pagine e pagine in grado di terremotare governi, partiti, maggioranze e persino il Vaticano, hanno poi sfilato, leggo (non abbassarmi le maiuscole come fai sempre, perché i sotto citati potrebbero innervosirsi e scriverti mail indignate): Paolo Tedeschi, Head of Corporate Communications Marketing & Sustainability Canon Italia, Marco Brachini, Chief Marketing & Communication Manager Sara Assicurazioni, Manuela Cacciamani, Presidente Anica, Diego De Felice Direttore Comunicazione dell’INPS, Fernando Vacarini Resp. Media Relations, Corporate Reputation and Digital PR – Gruppo Unipol, Alessandra Cappello, Responsabile internal communication and digital workplace – Gruppo Unipol e Giulia Caramaschi, Responsabile Comunicazione Interna Gruppo Hera.

Il risultato di tutti questi ospiti è una curiosa commistione di comunicazione e marketing che comunque mi pare abbia ben poco a che fare col giornalismo (anche se un giornalista di vaglia ho appreso grazie a te che ha appena scritto un manuale di comunicazione e marketing), che non dovrebbe essere nessuna delle due (e c’è persino chi si spinge, nelle interviste per lanciare lo show, a utilizzare il termine “narrazione“, ovvero storytelling e quasi mi cedono le ginocchia, le braccia e altre parti del mio corpo cui sono maggiormente affezionato). Ma correggimi se sbaglio. L’esperto tra noi rimani tu, te lo concedo.

“Editoria, giornalismo e corporate communication. Tre mondi apparentemente indipendenti ma che al contrario devono dialogare costantemente per assicurare l’integrità e l’accuratezza dell’informazione, oltre a promuovere la sostenibilità del giornalismo – leggo sempre sull’integerrimo Fatto Quotidiano. Quali possibilità un approccio giornalistico possa offrire alle aziende per presentarsi in maniera credibile al pubblico, oppure le opportunità offerte dall‘intelligenza artificiale per veicolare la comunicazione dei brand? E ancora le limitazioni legali e morali per non cadere in confusione tra comunicazione e informazione”.

Come ti accennavo, sono convinto che rapporti finora carsici debbano emergere alla luce, in modo da permettere al lettore di essere realmente consapevole sui modi di sostentamento di una testata. Ma certo fa specie – almeno a me – vedere nomi di peso del giornalismo e spokeperson di aziende altrettanto di peso, tutti assieme come al pranzo di Natale, parlare di branded journalism, ovvero di notizie sponsorizzate, perché quelle alla fine sono.

Per Emiliano Fittipaldi (leggo su AdnKronos), tra gli ospiti della prima edizione del Brand Journalism Festival, la kermesse romana era un’occasione “utile per cercare di ragionare su un tema importante come il rapporto tra il giornalismo, le aziende, le sponsorizzazioni e la pubblicità, per provare a trovare insieme delle soluzioni diverse, nuove, innovative e un nuovo equilibrio”. Certo, “siamo in un contesto complicatissimo”, ma “senza il giornalismo, una democrazia non è compiuta, quindi le professioni che girano intorno ai media hanno il dovere di cercare di capire le ragioni profonde della crisi e di provare a superarla attraverso un racconto nuovo che riesca a interessare i lettori”.

Vacarini (Unipol) esulta, come riporta Il Sole 24 Ore: “Abbiamo sempre creduto nel brand journalism, tanto da dar vita, nel 2016 a ‘Changes’, un blog che è diventato anche un’edizione cartacea nel 2018″. “Fare brand journalism – aggiunge – significa adottare le stesse tecniche di comunicazione di un giornalismo tradizionale perché, solo in questo caso, il giornalismo d’impresa può essere autorevole”.

Dai nomi delle realtà interessate annuso tanti bei soldoni. E qui ti arriva lo scappellotto, direttore, perché tu non ci sei: questi parlano del giornalismo del futuro, dei mille e più modi di fare comunicazione dietro lauta ricompensa ma la tua cocciutaggine d’antan t’impedisce di essere lì, perché mi dici che fai una vita da semi eremita.

Gli articoli su come sarebbe dovuta essere questa kermesse davvero si sprecano sulle testate i cui direttori e giornalisti hanno calcato quel palco. Ma alla fine questo Brand Journalism Festival com’è stato, ti starai sicuramente chiedendo?

Ah, saperlo! Perché a parte qualche comunicato ripreso da siti minori, le grandi testate ospiti hanno evitato di scriverne. Curioso, vero?

Ma andiamo con ordine. Il sito Uomini e donne della comunicazione, che sarà sicuramente tra quelli che consulti per la rassegna, scrive: “Successo a Roma per il Brand Journalism Festival”. E poi spiega: “La manifestazione, che ha ottenuto l’Alto Patrocinio del Parlamento Europeo, ha accolto oltre 200 partecipanti, tra editori, giornalisti, manager aziendali e professionisti della comunicazione, riuniti per esplorare nuove prospettive sul ruolo del brand journalism nella società contemporanea.”

Ma soprattutto riporta (qualsiasi cosa voglia dire): “L’evento ha messo in evidenza come le aziende possano trasformarsi in comunità attive, dove ogni membro è portatore dei valori aziendali, contribuendo a costruire un ecosistema comunicativo più responsabile e inclusivo. La trasparenza, infatti, diventa un fattore chiave nella reputazione aziendale, trasformando la comunicazione in un potente strumento per coinvolgere e responsabilizzare il pubblico”.

Eccitato, vero?

Media Key, su cui non ero mai incappato prima d’ora, invece scrive: “Intanto BJF è già proiettato al futuro: la prossima edizione del Festival – che ci sarà nell’autunno del 2025 – rappresenterà un ulteriore passo verso un ecosistema comunicativo più etico e responsabile. I mesi che intercorreranno tra le due edizioni saranno dedicati alla stesura di un manifesto che delineerà principi e pratiche di comunicazione trasparente, coinvolgendo tutti gli attori del settore. Questo impegno collettivo ha l’obiettivo di trasformare le intuizioni emerse durante BJF24 in azioni concrete, promuovendo una cultura dell’informazione che metta al centro l’integrità e la responsabilità sociale”.

Oh mamma!

Ma le testate che hanno avuto i direttori in prima fila?

Il Fatto glissa con un video: “Brand Journalism Festival, rivedi gli interventi di Peter Gomez, Emiliano Fittipaldi, Francesco Cancellato e Annalisa Cuzzocrea”. In calce non riportano nemmeno una citazione a testa, come pure fanno di solito coi video, anche presumo per aiutarne l’indicizzazione su Google. “Un confronto che qui proponiamo integrale” taglia corto lo stagista che se ne sarà dovuto occupare… e chi vuole si sbobini il video. Mah. Strano. Idem mi par di capire l’AdnKronos: “Brand Journalism Festival 2024 – Diretta dalle 9:30” e se vuoi ti guardi il video.

Mi par di fiutare – ma, direttore, sei tu l’esperto in materia giornalistica – che gli accordi con l’organizzazione prevedessero molti articoli poco spontanei prima dell’evento, ma nessuno dopo. E le testate si sono ben guardate dal coprirlo. Ma non eravamo all’alba di una rivoluzione? Con tutti questi giornalistoni sul palco non c’era mezza notizia che meritasse di trapelare?

E non è finita qua, perché su Prima Comunicazione leggo che ora sul canale 260 del digitale terrestre, per chi avesse l’ardire di spingersi così in là (e io che continuo a pigiare soprattutto i primi sette canali: mi sento davvero vecchio, lo ripeto), Urania TV, canale “dedicato interamente alle istituzioni e alle imprese”.

L’iniziativa, leggo da Prima, “fa capo a Giampiero Zurlo, presidente di Urania Media e Amministratore delegato del Gruppo Utopia, attivo nelle relazioni istituzionali e nel lobbying”. Il canale, spiegano, “vuole sperimentare un modello di pubblicità di natura istituzionale e corporate, per questo la pubblicità prodotto/commerciale sarà estremamente esigua. In queste ore si possono già vedere sul canale spot con finalità istituzionali e di posizionamento corporate di alcune aziende e associazioni. In questa fase di lancio la gestione della pubblicità è stata affidata a un ufficio interno della società editoriale Urania media (che pubblica anche Thewatcherpost.it e thewatcherpost.eu, NDR), in coordinamento con le testate giornalistiche partner. Sono inoltre in corso di sottoscrizione accordi con i più importanti centri media italiani”.

Il giornalismo è morto e sepolto. Lo sai meglio tu di me tutte le volte che su X pubblichi le vendite in costante calo dei principali giornali in edicola. E l’ambiente televisivo non sembra stare meglio. Viva il branded journalism, dunque. Dillo anche tu, coraggio.

Tuo brandizzatissimo,

Francis Walsingham

+++

Riceviamo e volentieri pubblichiamo:

Caro direttore,

ti scrivo dieci righe per dovere di cronaca e per rassicurare i tuoi lettori. Faccio riferimento al pezzo, firmato da Francis Walsingham, che non ho il piacere di conoscere.

Ovviamente esprimo il mio punto di vista, che rappresenta la mia firma, la mia faccia e la testata per cui lavoro.

La mia partecipazione alla prima edizione del Brand Journalism Festival, e anche la media partnership dell’Agenzia, hanno un significato diametralmente opposto al senso della ricostruzione che leggo. Non solo non è ‘Il giornalismo è morto? Viva il branded journalism’ ma è l’esatto contrario.

Quello che ho detto sul palco del BJF, a proposito rinnovo i complimenti a Ilario Vallifuoco per l’organizzazione impeccabile e il livello dei contenuti di un evento più che riuscito, è in estrema sintesi questo: investire energie e risorse sulla qualità di quello che si fa quotidianamente è l’unica strada per salvare il giornalismo e rilanciarne la funzione, essenziale, in un contesto in cui l’informazione è quotidianamente alimentata da fonti non giornalistiche; servono regole di ingaggio chiare e un confronto con il mondo dell’impresa che abbia il coraggio di rispettare posizioni diverse; l’approccio giornalistico non esiste se non c’è una verifica delle fonti e l’intermediazione di una testata che ha la responsabilità di quello che scrive o dice.

Nulla di rivoluzionario ma messaggi che mi sembrano sufficientemente chiari e comprensibili. E che, a mio avviso, è utile condividere in un contesto aperto, largo, come quello che ha assicurato il Brand Journalism Festival.

Se vogliamo poi parlare delle fonti dei ricavi per l’editoria, tutta, possiamo aprire un dibattito. Ma lo farei senza ipocrisie, omissioni e discutibili auto-assoluzioni.

Non ti annoio oltre, grazie e buon lavoro.

Fabio Insenga  

vicedirettore Adn Kronos

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