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Giacomo Matteotti

Giacomo Matteotti, nemico di tutti i totalitarismi

A cento anni dalla morte la figura politica e morale di Giacomo Matteotti è un richiamo a tutti per la costruzione di valori condivisi. L'approfondimento di Walter Galbusera

 

Il 16 agosto 1924 nei boschi della Quartarella nei pressi di Roma fu ritrovato il corpo di Giacomo Matteotti che il 10 giugno precedente era stato rapito e assassinato dalla Ceka fascista. A cento anni dalla sua morte si ricorda con numerose iniziative uno dei personaggi più importanti della storia dell’Italia unita che, oltre a divenire simbolo dell’antifascismo, fu anche uno dei più coerenti sostenitori del socialismo democratico e nemico di ogni totalitarismo.

C’è da augurarsi che il “Centenario” non si esaurisca negli atti celebrativi ma che da una attenta rilettura degli scritti, delle proposte e delle iniziative di Matteotti si tragga un utile contributo per migliorare la qualità della politica italiana di oggi. Matteotti contrastò, spesso isolato, con tutte le sue energie il fascismo proprio perché aveva intuito con largo anticipo che l’obiettivo ultimo di Mussolini era quello di imporre lo “Stato totalitario”, distruggendo le fondamenta dello Stato di diritto che ieri come oggi ha come base le libertà politiche e sociali, la separazione dei poteri e il governo delle ”libere maggioranze” che Matteotti voleva difendere nei confronti di chiunque lo mettesse in discussione. Per il segretario del PSU era necessario salvare la democrazia, anteposta agli interessi di partito o di classe sociale.

Il suo esempio di servitore dello stato democratico dovrebbe spingere le forze politiche di oggi a una maggior e più consapevole qualità del confronto politico e istituzionale.

Sarebbe un errore perdere l’occasione, a destra e a sinistra, di andare al di là della retorica di una (scontata) condanna del delitto, anche per cominciare a costruire un paese normale. Come? Da una parte Giorgia Meloni potrebbe, abbandonando equivoci retaggi del passato, avviare un graduale processo di trasformazione di “Fratelli d’Italia “in un moderno partito conservatore, operazione necessaria, faticosa ma non impossibile se si pensa a quanto fatto a suo tempo da Gianfranco Fini. Dall’altra, il Pd (che è difficile non considerare almeno in parte erede del PCI) potrebbe avviare in sede storica una riflessione critica sull’errore strategico della scissione di Livorno e sulla sua subalternità al comunismo sovietico.

Nel confronto politico italiano spesso, più che far emergere i differenti contenuti, si privilegiano le“ pregiudiziali”, cosa di per sé del tutto legittima ma che, come effetto ultimo più che alla propria connotazione identitaria e al confronto di merito, tende a squalificare gli avversari trasformandoli in nemici irriducibili. Citando Luciano Violante, si può dire che c’è poca disponibilità ad ascoltare le ragioni degli altri. Il più rilevanti di questi temi, per l’importanza politico culturale che ha assunto, è senza dubbio quello dei valori democratici (pluralismo, alternanza, divisione dei poteri) che viene spesso semplificata come “pregiudiziale antifascista”. È fuori discussione che la Repubblica Italiana è nata anche dalla Resistenza ma è altrettanto vero che il solo obiettivo unanimemente condiviso da tutte le forze partigiane era la sconfitta del nazifascismo. Per questo l’essere antifascista è un requisito essenziale per dichiararsi a buon diritto democratico, ma non è sufficiente.

È necessario essere anche antitotalitari senza se e senza ma. Naturalmente tutto va contestualizzato ma il giudizio che si dà in sede storico-politica non può lasciar spazio a equivoci. La maggioranza del Parlamento europeo, una istituzione non riconosciuta solo dai nazionalisti più incalliti, approvò pochi anni fa una dichiarazione di fedeltà ai valori democratici e di ripulsa di tutti gli autoritarismi del 20° secolo e di quelli attuali che venne però sottovalutata e scomparve dal dibattito tra le forze politiche italiane senza divenire oggetto di riflessione e confronto costruttivo. Non è il caso di riprenderla?

Questo processo di “riposizionamento” complessivo delle forze politiche italiane da dove può cominciare? Il punto di partenza può venire da una comune presa di posizione inequivocabile contro l’uso della violenza sia nel linguaggio che nei conflitti politici e sociali. Le difficoltà interne ai singoli Stati e a maggior ragione una crisi internazionale possono produrre oggi effetti politici assai pericolosi che vanno governati. Un secolo fa Filippo Turati si espose in prima persona sul tema della violenza politica: “Ci sono metodi che non ci appartengono come quelli che, anziché procedere alla ordinata conquista del potere politico ed economico, spinti dalla fede nel miracolo della violenza la quale sia d’individui o di folle, militare o proletaria, adoperi la bomba o il colpo di mano o la dittatura. La violenza non è la forza ma la sua negazione, è debolezza e crea debolezza”. E più ancora:“Noi siamo nati dalla libertà di pensiero. La libertà è la ragione e il progresso civile, fuori di essa non vi è che servilismo e degenerazione (aprile 1921). Al Congresso di Livorno aveva affermato che le violenze diffuse, anche da parte della sinistra, in realtà alimentavano la reazione: “Compagni, il fascismo lo creiamo Noi!”.

Anche Giacomo Matteotti aveva perfettamente inquadrato il potenziale eversivo simmetrico di fascismo e comunismo che pure esprimevano ideologie antitetiche. D’altra parte lo stesso “Ordine Nuovo” era esplicito, nelle parole e nelle immagini, nel contrapporre fascismo e comunismo come due dittature, l’una (quella fascista) che distrugge e l’altra (quella del proletariato) che ricostruirà. Ma pur sempre due dittature. La motivazione del rifiuto di Matteotti di celebrare il 1° maggio 2024 con il Partito Comunista è chiara:“Voi siete comunisti per la dittatura e per il metodo della violenza delle minoranze; noi socialisti e per il metodo democratico delle libere maggioranze”. La risposta il giorno seguente del giornale comunista L’Unità è altrettanto netta e titola: “Le idiote insolenze dell’Onorevole Matteotti”. Pochi giorni prima di essere assassinato dagli squadristi fascisti Giacomo Matteotti scrive il suo ultimo articolo su “La Giustizia” del 25 maggio 2024: “Ho sempre visto una identità sostanziale tra tutti i socialisti e una antitesi netta soltanto con il comunismo.

 

È ben vero che il PCI rese omaggio al coraggio di Giacomo Matteotti ma la sua memoria (questo approccio incredibilmente persiste tutt’ora), rimase confinata nel ruolo di vittima dei fascisti. Si celebrava il morto, non certo l’uomo politico che combatteva il fascismo su posizioni democratiche e la sua figura fu limitata esclusivamente a simbolo dell’antifascismo oscurando i valori del socialismo democratico di cui Matteotti era portatore intransigente. Dopo il delitto, ai suoi compagni del PSU, a partire da Turati, furono riservati nelle immagini e nelle parole i tradizionali epiteti riservati ai riformisti come collaborazionisti, semifascisti, social traditori, filofascisti tutti in evidenza sulla prima pagina dell’Unità del tempo.

Oggi è nell’interesse di tutte le forze politiche italiane ricostruire valori comuni riflettendo sulle macerie del passato.

Non si tratta di tentare una “riconciliazione” riscrivendo la storia, cosa che si rivelerebbe per tutti un sentiero impraticabile ma di ritrovare e accettare valori condivisi su cui costruire il cammino futuro, restituendo a Matteotti e a Turati la loro grande attualità.

Prima ancora di discutere di meccanismi elettorali, occorre riconoscersi in un modello culturale che identifica la democrazia politica nell’alternanza al governo di forze politiche tra di loro avversarie ma non antagoniste e che, pur rappresentando interessi diversi e tra loro conflittuali, si riconoscono, si rispettano e si legittimano reciprocamente sulla base di regole del gioco condivise garantendo sia la continuità che la governabilità. Il vecchio continente fu devastato nel secolo scorso da dittature di ogni colore che purtroppo oggi non sono del tutto scomparse anche se hanno assunto apparentemente una nuova veste. L’Europa del futuro per crescere e consolidarsi sui valori della libertà e della solidarietà tra i popoli, non potrà accettare ambiguità o equivoci di sorta sulla propria identità culturale democratica.

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