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Angela Merkel

Vi racconto la Germania al tempo della pandemia

Come va la Germania? L’analisi di Pierluigi Mennitti pubblicata sul nuovo numero della rivista della Fondazione Craxi “Le Sfide”

Il tempo sospeso della politica tedesca ha ottenuto un’ulteriore proroga grazie allo scoppio della pandemia di Covid-19. La paralisi che il contagio ha prodotto nella vita sociale ed economica di tutto il mondo ha cristallizzato anche il quadro politico in Germania, dilatando a data da destinarsi l’appuntamento con uno degli snodi fondamentali per il futuro del Paese: la successione alla leadership di Angela Merkel nell’Unione Cristiano-Democratica (CDU). Tecnicamente si tratta di una successione della successione. La CDU aveva avviato il percorso del dopo-Merkel già un anno e mezzo fa, esattamente nel dicembre 2018, eleggendo in un serrato congresso ad Amburgo Annegret Kramp-Karrenbauer, promettente ex presidente del piccolo Land del Saarland. Spettava a lei il compito di sostituire per gradi Angela Merkel. Prima alla testa del partito, mettendo mano alla riorganizzazione delle federazioni regionali, rinnovando la classe dirigente e tracciando un nuovo programma strategico per le sfide degli anni Venti di questo secolo. Poi, alla guida del Paese, dal 2021, quando la cancelliera avrebbe lasciato le redini del comando e forse anche l’attività politica diretta dopo 16 anni di governo. Merkel consegnata ai libri di storia patria, come lo furono cancellieri tedeschi del calibro di Konrad Adenauer o Helmut Kohl, e Annegret Kramp-Karrenbauer sulla plancia di comando, della Germania e della CDU. Con l’obiettivo di ripercorrere le orme del suo predecessore, in nome di un matriarcato politico ormai consolidato e in sella a un partito forse indebolito, ma pur sempre indispensabile per qualsiasi futuro equilibrio di governo.

IL VIRUS RIMESCOLA LE CARTE DELLA POLITICA

Ma la politica si prende spesso gioco degli scenari disegnati a tavolino. I delfini, seppure incoronati, talvolta non riescono a guizzare come promesso quando si ritrovano a nuotare in mare aperto. E così, in appena tredici mesi di faticoso praticantato nella sede del partito più importante d’Europa, la promettente ex presidente del piccolo Saarland ha gettato la spugna, ha annunciato le dimissioni e ha rimesso in gioco uno dei pochi punti fermi nella politica tedesca di questi tempi. Nell’intento di governare anche la propria successione, Kramp-Karrenbauer aveva immaginato tempi medio-lunghi per la sua sostituzione, prospettandola per fine 2020. Ma il continuo calo nei sondaggi e le turbolenze seguite all’annuncio dell’abbandono, avevano consigliato il gruppo dirigente dimissionario ad accorciare i tempi, fissando per il 15 di aprile la data del congresso straordinario che avrebbe votato il nuovo volto, il vero e definitivo successore di Angela Merkel. Poi è arrivato il Coronavirus e ha mandato di nuovo tutto all’aria.

Al momento è difficile capire se la pandemia, questo evento inatteso e dai contorni biblici che promette di stracciare il tessuto economico di molti paesi, stravolgerà anche il panorama politico tedesco. Se innescherà trasformazioni radicali anche in una realtà che pare più attrezzata di altri ad attutire i contraccolpi, sia sul piano economico grazie alla robustezza della rete di protezione che è stato in grado di dispiegare, sia su quello politico grazie a un’impalcatura istituzionale e politica ancora presente, anche se meno solida di un tempo. Per ora, l’emergenza ha restituito legittimità e autorità a chi già detiene le leve del potere. Partiti storici in caduta più o meno libera hanno ritrovato il consenso evaporato e la stessa cancelliera, cui veniva riconosciuto ormai l’onore al merito, quasi come fosse un Oscar alla carriera, ha ritrovato smalto e approvazione per la sua gestione della crisi, tanto che qualche organo di stampa ha speculato su una sua ipotetica (ma poco probabile) candidatura per un quinto mandato.

Guide sicure nel mare in tempesta. I partiti tradizionali, così tanto penalizzati in ogni tornata elettorale degli ultimi anni, risalgono nei sondaggi, diventano scogli ai quali aggrapparsi per non affogare. Soprattutto l’Unione, la federazione dei due partiti cristiani, la CDU e la bavarese CSU, cui tutti predicevano un declino irreversibile come partito di massa, ha recuperato sette punti percentuali (dal 26 al 33 per cento secondo i sondaggi più autorevoli) nel solo mese di marzo. È il premio per una gestione della crisi in cui non ha brillato una sola donna al comando, ma un concerto di protagonisti: la cancelliera, naturalmente, ma anche ministri come il trentottenne Jens Spahn, titolare della Salute, e il settantunenne Horst Seehofer, titolare dell’Interno; o presidenti di Land come il cinquantatreenne Markus Söder, Ministerpräsident della Baviera e leader della CSU, che potrebbe diventare la carta a sorpresa dell’Unione per la cancelleria. Accanto al singolo leader, la crisi ha fatto emergere un’intera classe dirigente riscopertasi credibile nel momento della necessità. Perfino la tramortita SPD, il Partito Socialdemocratico ridotto a percentuali mai conosciute nella sua lunga e gloriosa storia ultracentenaria, ha ritrovato un qualche vigore, spinta dal consenso al suo ministro del Tesoro e ai titolari dei dicasteri sociali.

Al contrario, è diminuito il sostegno alle forze che avevano sfruttato il declino dei grandi partiti di massa. Più contenuto il calo per i Verdi, che scontano la specificità delle loro competenze e la leggerezza del consenso di opinione aggregato nell’ultimo triennio. Ma la trincea dell’emergenza pandemica ha soprattutto punito la suggestione populista, incarnata in Germania dal partito nazionalista di Alternative für Deutschland (Alternativa per la Germania), la forza che più di tutte è riuscita a minare nell’ultimo lustro la leggendaria stabilità del sistema politico tedesco, rompendo tabù, imponendo agende politiche, scavando ancora più a fondo il solco geografico e umano fra Est e Ovest e incalzando per la prima volta da destra la supremazia dei partiti cristiano-democratici. Di fronte alla serietà e alla drammaticità della situazione, il canovaccio monotematico della destra nazionalista si è rivelato uno spartito inadeguato e i toni roboanti delle battaglie anti-sistema sono apparsi richiami fuori luogo. Magari non durerà. L’eccezionalità del momento è tale che i consensi raccolti in tempo di emergenza possono evaporare con la stessa rapidità con cui sono arrivati ed è probabile che al ritorno alla normalità si accompagnerà anche il riemergere delle tendenze sopite. Ma nel caso tedesco la ripresa di vigore dei partiti storici potrebbe avere conseguenze di più lunga durata. Come per la profezia della “fine della storia”, anche quella della fine dei partiti di massa potrebbe alla fine scontrarsi con la realtà non lineare del processo storico. In attesa di vedere e comprendere in che modo, nel tempo nuovo che seguirà la fine della pandemia, si ricomporrà la lacerazione del tessuto della storia e se le emergenze e i cambiamenti verranno governati o sfogheranno in istanze più radicali o ribellioni, va registrato proprio il fatto che il ritorno prepotente dello Stato nella vita della Nazione stia restituendo vigore a quelle classi dirigenti che dimostrano di saper esercitare la sovranità con le competenze richieste.

In Germania (ma l’osservazione può valer anche per la vicina Austria nella variante conservatrice-ecologista), il nazionalismo invocato dalla destra populista è stato adottato e incarnato dalle due forze politiche tradizionali, dal conservatorismo cristiano nella modernizzante versione merkeliana e dalla socialdemocrazia che nel dirigismo economico si è emendata del “peccato” riformista dell’era Schröder. Le disposizioni emergenziali adottate per combattere il contagio pandemico come il controllo e in alcuni casi la chiusura dei confini, i sussidi statali per chi perde reddito e lavoro, addirittura l’ipotesi che lo stato entri nelle quote azionarie di aziende in difficoltà, propongono seppure temporaneamente quel mondo chiuso e protezionistico che AfD vagheggiava da tempo per difendere la patria dall’immigrazione di popoli ritenuti non integrabili e per sostenere l’economia tedesca nella competizione internazionale. Si tratta naturalmente di un paradosso, ma se gli scenari futuri dovessero accelerare il ripensamento del modello di globalizzazione e la disputa di conflitti commerciali, con il consolidamento di grandi aree regionali più in competizione che in collaborazione fra loro, non è detto che siano i partiti nazionalisti a capitalizzare il cambio di paradigma. Per restare alla Germania, CDU e SPD sarebbero perfettamente in grado, per cultura e tradizione, di incarnare l’esigenza di uno Stato forte, presente nella vita dei cittadini e protagonista dei processi economici e industriali. Molto dipenderà da come la crisi economica impatterà sul Paese, dalla profondità della devastazione sociale e dalla capacità di ripresa del sistema imprenditoriale. Gli scenari degli istituti politici ed economici sono al momento troppo vaghi per affrettare una risposta. Ma non sarebbe una sorpresa se i pessimistici paesaggi weimariani che alcuni evocano restassero confinati ai libri di storia.

IL DECLINO DEI PARTITI DI MASSA

Sino allo scoppio dell’emergenza pandemica, la politica tedesca sembrava scorrere su un doppio binario. Su quello più strettamente istituzionale, la Grosse Koalition formata dai due storici pilastri della Nazione (i conservatori dell’Unione di CDU e CSU e i socialdemocratici dell’SPD) assicurava un po’ stancamente la stabilità amministrativa al Paese con il quarto governo guidato da Angela Merkel, più sfiatato e meno brillante rispetto alle compagini precedenti. Sul binario politico, importanti novità, maturate negli ultimi anni e confermate in una serie di elezioni regionali, sembravano annunciare una cesura storica: una sempre più accentuata frammentazione del quadro politico, la difficoltà di formazione di maggioranze omogenee dal punto di vista ideale e programmatico, l’ascesa dei Verdi (die Grünen) come forza di governo potenzialmente anche maggioritaria, il consolidamento di una forza di destra nazional-conservatrice (Alternative für Deutschland, AfD) per la prima volta in grado di insidiare l’egemonia che i partiti cristiano-democratici avevano dal centro sempre esercitato su questa area elettorale, secondo lo slogan coniato dallo storico leader bavarese Franz Joseph Strauss: «Mai un partito democraticamente legittimato a destra dell’Unione». Da un lato la routine politica caparbiamente perseguita da Merkel attraverso un governo poggiato sulle forze tradizionali. Dall’altro un turbolento confronto politico, che minava alla base proprio quegli equilibri consolidati in un settantennio, lasciando aperti e incerti gli sbocchi futuri. Le due dinamiche erano in realtà due facce della stessa medaglia. La coalizione di governo fra CDU-CSU e SPD, forze che rappresentavano i poli alternativi di un bipolarismo quasi perfetto, era figlia di una condizione eccezionale: l’impossibilità per la terza volta in quattro legislature di costruire una maggioranza tra forze omogenee. Negli ultimi quindici anni è accaduto nel 2005, nel 2013 e nel 2017. In passato era accaduto solo una volta, nel 1966, e quella Grosse Koalition era durata appena tre anni. Le nuove “fratture” sociali e geografiche tra est e ovest del Paese, riflesse nella frammentazione del quadro partitico e nella nascita di nuove forze politiche, avevano già messo da tre lustri il vagone della politica tedesca su un binario emergenziale.

Eppure, nei decenni precedenti la Bundesrepublik aveva saputo metabolizzare e digerire le grandi novità politiche: negli Anni Ottanta l’irruzione del movimento ecologista dei Grünen, negli Anni Novanta l’integrazione dello spaesamento post-comunista di una parte della società tedesca dell’Est rappresentata dal voto alla PDS prima, alla Linke poi. Le fratture più recenti hanno invece imballato il sistema e richiederanno fantasia e creatività per sboccarlo, immaginando nuovi equilibri. Sempre ammesso che alle spalle tengano le impalcature istituzionali sovranazionali, a partire dall’Unione Europea.

Sullo sfondo agiscono poi due fenomeni presenti da tempo in altre democrazie occidentali e presentatisi in Germania all’inizio del nuovo secolo. Il primo: la disaffezione e dei cittadini verso la politica (Politikverdrossenheit) e il calo di fiducia nei confronti della sua classe dirigente, accentuatasi negli ultimi anni in forme di contestazione alle élites. Il secondo: la crisi dei partiti di massa novecenteschi, incapaci di rappresentare come un tempo interessi sociali ed economici sempre più diversificati e confliggenti. Quest’ultimo aspetto ha prima investito l’SPD, con i suoi oltre 150 anni di vita il partito più antico della Germania. L’SPD, che con le due cancellerie riformiste di Gerhard Schröder (1998-2005) aveva occupato il centro della politica (die neue Mitte), rappresentando la versione tedesca del blairismo britannico (e in qualche modo del clintonismo americano), non è passata indenne dalla stagione della ristrutturazione dello Stato sociale e del mercato del lavoro tedesco. La famosa Agenda 2010, il programma riformista che secondo molti osservatori ha contribuito a trasformare il malato d’Europa dei primi anni Duemila nella più dinamica economia continentale dell’ultimo quindicennio, è stato vissuto dall’elettorato del partito come un tradimento dei valori storici della socialdemocrazia. I tanti, troppi leader che si sono succeduti nel dopo-Schröder, messi peraltro in ombra dalla abilità tattica di Angela Merkel, capace di inglobare con la sua arte di compromesso molti temi tradizionali dei socialdemocratici, non sono riusciti a trovare uno spazio politico che rivendicasse la stagione riformista e orientasse il partito ad affrontare le sfide successive. Tanto più che le crisi finanziarie e dell’euro degli Anni Dieci, avrebbero potuto riservare spazio di manovra politico a una forza della sinistra democratica, a patto che restasse agganciata ai nuovi bisogni e alle nuove istanze della società contemporanea. Invece è stata Merkel ad appropriarsi dei benefici delle riforme schröderiane, lasciando all’SPD i cocci dei risentimenti. Mentre i Verdi ne hanno via via sfilato l’elettorato urbano e giovanile, affermandosi in maniera concorrenziale come forza moderna e pragmatica, di sinistra ma non troppo, capace di dialogare in prima persona con i conservatori. A parte la tenuta in alcune roccaforti regionali o comunali, l’SPD con otto presidenti in 15 anni è passata dal 35 per cento delle elezioni federali del 2005 al 15 per cento dei sondaggi attuali (nei quali si segnala una ripresa rispetto ai minimi storici di un anno fa).

La personalità di Angela Merkel, la sua iniziale operazione di modernizzazione della CDU, la sua composta e pragmatica azione di governo hanno salvaguardato per molti anni la CDU dal destino degli altri partiti di massa europei. La cancelliera ha sempre saputo capitalizzare a proprio favore l’attività dei governi che ha guidato, svuotando i contenuti dei partner di governo e alla fine anche i loro serbatoi elettorali. Una strategia spregiudicata, riuscita anche a scapito delle opposizioni, come quando nel 2011, a seguito dell’incidente nucleare di Fukushima, non esitò a mandare all’aria la politica energetica del proprio partito pur di contrastare l’ascesa dei Verdi (anche allora i Grünen raggiunsero nei sondaggi il 20 per cento), decretando la fuoriuscita dal nucleare e avviando una complessa transizione energetica verso le fonti rinnovabili. In questi sedici anni la politica della CDU è stata quella del governo: il partito è stato esautorato del suo ruolo di elaboratore strategico autonomo e le varie componenti sono state addomesticate nella competizione interna (anche programmatica). Seguendo la tendenza alla personalizzazione della politica, la CDU è stata sempre più Angela Merkel, il suo confronto programmatico finalizzato al consolidamento del potere della cancelliera. Il vecchio motto conservatore di Adenauer e poi Kohl, Kein Experiment, nessun esperimento, si è trasformato nel merkeliano alternativlos, senza alternativa: una strategia pragmatica, che nella sua dichiarazione di inevitabilità silenziava di fatto ogni dibattito interno, quindi ogni dissenso.

LA CRESCITA DELLA DESTRA NAZIONALISTA E DEI VERDI

Ha funzionato fino alla crisi dei profughi del 2015, quando la decisione di aprire le frontiere per accogliere i fuggiaschi dalla Siria in guerra ha prodotto un’emergenza nazionale durata tre mesi, nei quali il Paese ha temporaneamente perduto il controllo dei flussi in ingresso, ha irritato i partner europei lungo la cosiddetta rotta balcanica e ha alla fine prodotto l’accordo UE-Turchia, consegnando a Recep Tayyip Erdogan un’arma di ricatto strategica nei confronti dell’Europa. Ma soprattutto, dopo uno slancio iniziale di solidarietà, una parte consistente della società tedesca ha rigettato la politica dell’accoglienza, dando vita a movimenti di protesta articolati (si pensi alle marce settimanali di PEGIDA a Dresda con 25mila persone nei mesi di maggior successo) e alla veloce ascesa di un partito nazionalista di destra in una misura mai conosciuta nella Bundesrepublik. In pochi mesi Alternative für Deutschland, nata nel 2013 su iniziativa di professori liberisti per contrastare da posizioni ancor più rigoriste la gestione dell’euro-crisi di Angela Merkel, ha compiuto una virata a destra andando a occupare uno spazio politico che la CDU merkeliana aveva lasciato scoperto. Una nuova classe dirigente ha pensionato i professori liberisti, ha colto lo smarrimento del momento e ha agganciato la protesta contro l’immigrazione ritenuta senza controllo, sfatando il lungo tabù di una forza politica consolidata a destra dei cristiano-democratici. Era accaduto altrove, in Italia, in Austria, nei paesi di Visegrad, ma non era ancora accaduto in Germania e molti autorevoli politologi ritenevano che la cultura politica della Bundesrepublik non l’avrebbe mai consentito. Si sbagliavano.

Le politiche contro l’immigrazione sono parte essenziale ma non unica della propaganda di AfD. Negli ultimi anni, il sistema politico tedesco è stato stressato anche dallo smottamento provocato da due ulteriori linee di frattura: una geografica (est/ovest), l’altra generazionale (giovani/anziani). La prima è più consolidata, la seconda è emersa di recente, con la diffusione delle proteste giovanili legate ai temi della difesa climatica. Questa seconda frattura dovrà tuttavia resistere alla portata della crisi economica post-pandemia, che riporterà al centro della politica temi forti come la ripresa industriale e la lotta alla disoccupazione.

Sul clivage est/ovest, la crescita di AfD, pur avvenuta su tutto il territorio nazionale (in pochi anni il partito è entrato nel Bundestag e in tutti i parlamenti regionali), è stata più massiccia nei Länder orientali, dove il partito ha ottenuto nelle elezioni regionali percentuali tra il 20 e il 30 per cento. A trent’anni di distanza, la riunificazione tedesca mostra limiti strutturali che erano finiti in secondo piano rispetto all’immagine in grande scala di un sostanziale successo. L’est sconta debolezze strutturali che si sono trasformate in veri e propri disagi sociali o addirittura esistenziali, come l’effetto dello spopolamento avvenuto negli anni Novanta, il conseguente invecchiamento demografico, l’assenza di grandi industrie, la mancanza di centri di ricerca e innovazione capaci di attirare forza lavoro qualificata e giovane. Alla scarsità di giovani si aggiunge il paradosso politico che quelli che ci sono votano in massa per AfD, che risulta a est essere il primo partito in tutte le fasce di elettori sotto i 60 anni. Si è diffusa la percezione di una crisi che in verità non si ritrova nei dati (anche economici) di confronto con gli anni della DDR, e che non sempre è vera neppure in quelli con le regioni tedesche dell’ovest. Ma la percezione è un elemento fondamentale della costruzione del consenso e ad AfD non difettano spregiudicatezza e abilità dialettica.

L’altro elemento nuovo, che attende di essere testato nei prossimi mesi, è il prepotente ritorno sulla scena politica dei giovani, in parte sull’onda del movimento ambientalista Friday for Future e in parte per l’irruzione dei nuovi media nel dibattito elettorale. Il suo impatto è apparso rilevante nell’ultima tornata elettorale europea, un test da prendere sempre con cautela dato l’alto tasso di voto di opinione che lo caratterizza. Nella fascia di età degli under 30, i Verdi sono risultati il primo partito con il 29 per cento, mentre CDU e CSU hanno ottenuto insieme solo il 13 per cento e i socialdemocratici appena il 9 per cento, affiancati addirittura da un partito outsider come il satirico Die Partei. La formazione di Angela Merkel ha prevalso invece nel voto degli ultrasettantenni, dove ha ottenuto il 46 per cento, ma ha perso punti ovunque: il 2 per cento tra i senior e soprattutto il 16 per cento tra i giovanissimi. I Verdi sono risultati il primo partito in quasi tutte le grandi città: Berlino, Monaco, Amburgo, Francoforte, Düsseldorf, Stoccarda, Lipsia, Colonia. Ancora alle elezioni federali del 2017, la CDU aveva raccolto nella fascia giovanile il 25 per cento, contro il 12 degli ecologisti.

LA STAGIONE DELL’INCERTEZZA

Verdi e nazionalisti saranno i nuovi protagonisti della futura politica tedesca, sostituendo il confronto CDU/CSU-SPD? La prudenza è necessaria. Come detto, l’impatto della pandemia e delle sfide che presenterà possono cambiare completamente i termini dell’attuale confronto politico. Non va dimenticato che la Germania non ha gettato al vento l’apparato politico-istituzionale che ne ha accompagnato la storia democratica dal dopoguerra e possiede ancora il patrimonio di partiti ben strutturati e ancorati alla lunga tradizione di professionalità politica. In tempi difficili, quello che appariva uno strumento obsoleto può invece rivelarsi una risorsa preziosa.

Negli ultimi anni, con la conventio ad excludendum adottata da tutti i partiti nei confronti di AfD, la cui componente più radicale è anche sotto osservazione da parte dell’Ufficio federale di protezione della costituzione (il Verfassungsschutz), la formazione di nuove maggioranze è divenuta complessa e laboriosa, sia a livello federale che di Länder. Assieme al classico schema emergenziale CDU-SPD, è stato necessario inventare per le regioni costellazioni inedite e maggioranze anche tripartite di ogni genere. Potrebbe essere un’anticipazione di possibili equilibri futuri anche a livello federale, se non fosse che questi governi, oltre a soffrire di una maggiore instabilità per la presenza di più partiti, offrono anche proposte programmatiche più deboli e meno definite.

Per la politica tedesca si tratta di percorrere un terreno inesplorato dopo tanti anni di tranquilla stabilità politica. Il prossimo congresso della CDU che scioglierà il nodo del dopo Merkel risolverà solo le incognite legate al corso del primo partito tedesco. Restano aperte quelle legate ai sommovimenti nella società e soprattutto all’impatto che la pandemia avrà sull’economia, sui comportamenti sociali, sulla mentalità dei tedeschi, ma anche sulla tenuta delle strutture politiche nazionali e internazionali. La stagione del tempo sospeso sfuma in quella dell’incertezza.

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