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Merz

Germania, chi è (e cosa pensa della Cina) Merz che punta alla guida della Cdu

Perché il secondo tentativo di Merz di succedere a Merkel alla guida del partito cristiano-democratico tedesco assomiglia a una corsa sulle uova. L'approfondimento di Pierluigi Mennitti

Il postino suona sempre due volte, ma anche questa volta Friedrich Merz rischia di trovare la casa della Cdu sbarrata. Il suo secondo tentativo di succedere ad Angela Merkel alla guida del partito cristiano-democratico tedesco assomiglia a una corsa sulle uova. Ogni mossa può essere un passo falso, un inciampo sul selciato del politicamente corretto di cui è lastricato il dibattito pubblico tedesco. Gli è bastato ingarbugliarsi in un ambiguo ragionamento su gay e pedofilia per sollevare fantasmi di omofobia. È sufficiente che accenni a proposte di alleggerimenti fiscali per rianimare accuse di neoliberismo e di lobbismo imprenditoriale. Gli è bastato azzardare la carta dell’outsider che sfida l’establishment merkeliano per finire diritto ingabbiato nella casella dei populisti.

L’influente quotidiano Politico lo ha bollato come il Trump tedesco, e per l’uomo più a destra del terzetto che a gennaio si sfiderà per raccogliere il testimone dell’inossidabile cancelliera il compito più urgente – almeno con la stampa estera – è quello di scrollarsi di dosso l’immagine di politico irruente e rancoroso.

Per questo c’è tanta Europa nella Germania che Merz descrive ai giornalisti stranieri di stanza a Berlino (incontro rigorosamente via Zoom), quasi un ritorno al senso di Kohl per la costruzione della casa comune, con gli interessi tedeschi diluiti e accomodati con i partner europei perché, nel mondo nuovo della grande competizione fra Stati Uniti e Cina, gli Stati della vecchia Europa possono avere tono e influenza solo se parlano con una voce unica.

C’è poi una netta e chiara chiusura a destra, verso ogni possibile collaborazione con Afd, il partito nazionalista (oggi va più di moda il termine sovranista) cresciuto anche sfruttando lo spazio elettorale conservatore, secondo Merz trascurato dalla Cdu merkeliana. Una tentazione che spesso riaffiora nelle politiche regionali, soprattutto a est, dove le federazioni della Cdu non mostrano sufficiente autostima e corrono dietro le sirene aggressive dei nazionalisti. Era accaduto in Turingia (conflitto che costò la presidenza ad Annegret Kramp-Karrenbauer), sta succedendo di nuovo in Sassonia-Anhalt per la questione dell’aumento della tassa per la tv pubblica. La Cdu deve essere un argine verso gli estremismi, e quello di destra è stato sottovalutato nella sua capacità di radicalizzazione e di costruzione di reti di collegamento.

Merz riafferma il corso centrista del partito, assicura di non volerlo spostare a destra di un millimetro, ma semplicemente di volerne ampliare lo spettro, dare voce e spazio anche a quella fascia più conservatrice dell’elettorato che non si è più sentita rappresentata dalla Cdu e che solo essa è in grado di integrare in un processo democratico. Ci siamo accorti – ha aggiunto – che la democrazia in Germania non è così consolidata come credevamo in un’ottica occidentale fino alla riunificazione.

Merz è convinto che al partito serva un profilo chiaro e forte, di nuovo riconoscibile per quello che è e per quello che vuole, con un personale rinnovato che elabori un’idea ben definita del ruolo della Germania nei prossimi anni. Un partito naturalmente pronto ai compromessi ma anche ai conflitti, alle discussioni, al confronto delle idee con alleati e avversari politici. È uno dei tanti punti di rottura con il ventennio di Merkel, forse il più importante: un partito di principi, valori e posizioni riconosciute che siano la bussola delle future politiche e alleanze, non un grande contenitore dai contenuti indefiniti, modellato a seconda delle opportunità contingenti.

È questo il nocciolo del “conservatorismo” di Merz: il ritorno alla politica come riferimento fermo di valori e principi dai quali far scaturire l’azione del partito, non come gestione quotidiana e flessibile dei problemi così come si presentano. Ma che questo modello sia il più adatto ad affrontare le sfide di questi tempi è tutto da dimostrare.

Oltre a doversi scrollare di dosso il marchio di Trump tedesco, Merz deve infatti convincere i delegati del suo partito di non essere un protagonista ormai superato dai tempi, legato a un’idea di politica non più adatta ad affrontare le crisi contemporanee. Per questo parla di Europa e di Usa, di relazioni transatlantiche e di Nato, con accenni diversi rispetto ai millenarismi di Macron: l’elezione di Biden offre agli europei l’opportunità di tornare a discutere di interessi comuni e di rafforzare le nostre istituzioni multilaterali, sostiene Merz, ma la Nato non è morta. Servono grandi riforme e un solido pilastro europeo all’interno dell’Alleanza. Usa ed Europa saranno ancora, e per lungo tempo, reciprocamente dipendenti per le questioni della sicurezza.

Merz parla soprattutto di Cina, “a lungo frequentata negli anni professionali trascorsi fuori dalla politica”. La Cina a lungo sottovalutata. Non si è compresa la rapida dinamica e la natura della sua capacità di innovazione. Non abbiamo capito il modo in cui un partito comunista pianifica le sue strategie innovative. I regimi autoritari hanno dalla loro parte il tempo, programmano a lunga scadenza, non hanno i vincoli dei corti orizzonti elettorali. Le uniche due cose che devono fare sono: mantenere il potere e lasciare all’economia uno spazio libero sufficiente. È quello che Pechino ha fatto, e ora con la Via della Seta srotola davanti all’Europa una strategia globale e imperiale.

C’è il rimpianto per l’annullamento del vertice Ue-Cina di Lipsia, per il fatto che il semestre tedesco di presidenza Ue sia stato falcidiato dalla pandemia: la Cina ha una strategia per l’Europa, l’Europa non ne ha una per la Cina, ed è bene che se ne doti al più presto. La parola chiave è: reciprocità. Fino a qualche tempo fa non la si poteva neppure pronunciare, ma è stato un errore credere che Pechino sarebbe diventata una democrazia grazie all’ingresso nel Wto. La Germania stessa è diventata troppo dipendente commercialmente: nel breve periodo abbiamo avuto dei vantaggi, nel lungo avremo problemi. Anche per la politica estera e commerciale ci vuole una bussola, dice Merz.

Ma per prendere in mano le redini del partito (agli inizi degli anni Duemila era il capogruppo al Bundestag, ruolo che poi Merkel pretese per sé come leader dell’opposizione al governo Schröder, e da lì la rottura tra i due è divenuta insanabile), Merz deve vincere il congresso digitale del 15 gennaio. La maggioranza dell’elettorato tedesco (votanti di tutti i partiti) lo vedrebbe bene nel ruolo di presidente della Cdu: secondo un ultimo sondaggio, il 27% degli elettori è convinto che sia lui l’uomo giusto. Se sembra poco, basta dare un’occhiata alle percentuali degli altri due sfidanti: Norbert Röttgen totalizza il 22, il favorito Armin Laschet addirittura il 15. Un piccolo segnale per i delegati, dal momento che chi guiderà la Cdu avrà molte possibilità di candidarsi alla cancelleria e dovrà intercettare il consenso di tutti gli elettori.

Ma ad eleggere il successore di Merkel (in teoria di Kramp-Karrenbauer, ma questa è un’altra storia) saranno i 1001 delegati, membri di apparato eletti dalle federazioni, modellate da venti anni di merkelismo. Contano le posizioni acquisite, le piccole e grandi ambizioni personali, i pacchetti di voti e tutto quello che fa della Cdu un partito tradizionale, forte anche per questo. Merz avverte: il consenso di questi mesi (la Cdu oscilla nei sondaggi tra il 34 e il 37%) è dovuto alla crisi della pandemia e non durerà a lungo. Rimanda a un anno fa, quando il partito era scivolato al 25%. Ha nel frattempo incassato l’appoggio dell’organizzazione giovanile. Ma due anni fa, quando corse contro Kramp-Karrenbauer candidata di una Merkel debole e stanca, raggiunse il 48%, risultato enorme ma insufficiente. Ora la cancelliera è tornata salda in sella e non sarà facile per un outsider convincere i suoi futuri orfani politici di essere la persona giusta per riempirne il vuoto. Ma se c’è qualcosa diventata imperscrutabile, quella è un’elezione ai tempi della pandemia.

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