skip to Main Content

Giorgetti

Le bordate di Greco a Davigo fra verità e amnesie

I Graffi di Damato dopo l'intervista del Corriere della Sera al capo della Procura di Milano, Francesco Greco.

Se perfino al Fatto Quotidiano – dove “tutti i magistrati” superstiti di quella ”epopea” che molti ancora considerano la stagione giudiziaria di Tangentopoli, avviata a Milano nel 1992 con l’arresto in flagranza di Mario Chiesa al Pio Albergo Trivulzio – considerano “Mani pulite a pezzi”, come annuncia appunto oggi il giornale di Marco Travaglio in prima pagina, vuol dire che qualcosa di veramente grosso è accaduto o sta accadendo.

È, fra l’altro, la querela che Pier Camillo Davigo, il “dottor Sottile” di quelle indagini che traduceva in atti il lavoro investigativo condotto con la ramazza dal collega Antonio Di Pietro nella Procura diretta da Francesco Saverio Borrelli, si sarebbe proposto di presentare contro Francesco Greco. Il quale sta per andare in pensione come capo di quella Procura, dove aveva lavorato pure lui come sostituito con Davigo e Di Pietro, e ha voluto togliersi ieri qualche sassolino dalle scarpe con una intervista al Corriere della Sera da cui lo stesso Davigo non esce, diciamo così, molto bene: decisamente peggio del sostituto Paolo Storari, pur avvertito da Greco come un “pugnalatore alla schiena” per i verbali degli interrogatori dell’avvocato infedele dell’Eni Piero Amara consegnati sempre a Davigo. Che, ancora consigliere superiore della Magistratura, li avrebbe usati praticamente contro Greco alimentando il sospetto che egli davvero non avesse voluto fare sviluppare le dovute indagini per paura di compromettere un processo in corso contro l’Eni per corruzione internazionale, perduto poi lo stesso dalla Procura.

La storia è complicata, lo so. E a riassumerla, pur così a lungo, si rischia un’eccessiva approssimazione. Non è invece approssimativa ma reale l’accusa rivolta da Greco al suo ex collega ed amico Davigo di avere contribuito, volente o nolente, prima con l’uso e poi con l’”abbandono” di quei verbali di Amara, una volta decaduto da consigliere superiore della Magistratura, a quella che il capo uscente ha definito “una campagna mediatica” senza precedenti per compattezza e violenza contro “questa Procura” che “ha sempre rappresentato l’indipendenza e la libertà dei magistrati”. “È questo simbolo che deve essere abbattuto”, ha detto al Corriere Francesco Greco, peraltro finito sotto indagini a Brescia e contemporaneamente costretto dal Consiglio Superiore della Magistratura a tenersi in Procura Storari. Di cui il Procuratore Generale della Cassazione aveva chiesto il trasferimento in altra sede e in altra funzione.

In attesa degli sviluppi di questa intricata vicenda milanese, ho trovato inquietante un’ammissione di Greco al Corriere, in particolare dicendo di “non avere probabilmente colto il cambiamento culturale della magistratura, sempre più corporativa e autoreferenziale”. Eppure mi sembrava impossibile che alla Procura di Milano si potesse essere più autoreferenziali di quando lui vi lavorava come sostituto nelle già ricordate indagini “Mani pulite”. E partecipava alle proteste dei colleghi contro leggi ed altre iniziative governative o parlamentari, compresa una proposta di commissione d’inchiesta sul finanziamento della politica: tutte scambiate e bollate come interferenze e sabotaggi dell’azione giudiziaria. E tutte regolarmente subìte dai presidenti del Consiglio e della Repubblica di turno: persino da Silvio Berlusconi, che nel 1994 a Palazzo Chigi rinunciò alla conversione in legge di un decreto legge giù firmato dall’insospettabile Oscar Luigi Scalfaro al Quirinale per limitare il ricorso al carcere preventivo, dopo tutti gli abusi che s’erano fatti.

Back To Top