All’inizio del Novecento l’avanguardia futurista italiana esaltava il varietà perché meraviglioso ed eccentrico, antintellettuale e popolare, capace di coinvolgere il pubblico in modo attivo e di suscitare il suo apprezzamento con urla e schiamazzi. “Creiamo la scena”, scriveva Enrico Prampolini nel 1915. Inventiamo cioè uno spettacolo che non deve dipendere dalla parola ma dalla libera e sfrenata immaginazione dell’autore, che non deve quindi imitare la realtà ma stupire, divertire, emozionare e abbindolare gli spettatori con la rapidità e il sensazionalismo del suo messaggio. Il “teatro della sorpresa”, come recita il titolo di un manifesto firmato da Filippo Tommaso Marinetti e Francesco Cangiulli sei anni dopo, doveva insomma gettare alle ortiche ogni scoria élitaria e diventare “alogico, irreale”. Artificio, comicità, circo, imprevedibilità, testi scarni e insignificanti personaggi erano i canoni e i valori della drammaturgia futurista. È esattamente quella oggi riportata agli antichi fasti dalla compagnia di giro del capocomico Marco Travaglio, partigiano della pace a buon mercato. I suoi editoriali sul Fatto e le sue comparsate televisive sono ormai spettacoli cult. Il genere: burlesque giornalistico. I prezzi: modici. “Benvenuti a teatro, dove tutto è finto ma niente è falso” (Gigi Proietti).
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Eh, ma Zelensky non vuole trattare… Eh, ma Zelensky dovrebbe arrendersi… Eh, ma gli americani hanno riempito di armi gli ucraini… Eh, ma le gaffe di Biden… Eh, ma le atrocità degli ucraini nel Donbas… Eh, ma il battaglione Azov… Eh, ma Putin si sentiva accerchiato dalla Nato… Eh, l’aggressione c’è stata, ma la questione è più complessa…Eh, lo dice anche il Papa… (Gustave Flaubert, “Dizionario dei luoghi comuni. Catalogo delle idee chic [a sinistra]”.
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“L’Urss è un rebus avvolto in un mistero che sta dentro a un enigma”: così Winston Churchill, in un discorso radiotrasmesso il primo ottobre 1939, definiva il regime staliniano dopo la spartizione militare della Polonia con la Germania di Hitler. In qualche misura, lo stesso si può dire della Russia di Vladimir Putin sullo scacchiere ucraino. Non è invece un rebus un punto su cui, nella sua ascesa al potere, l’ex ufficiale del Kgb è tornato più volte: la fine certificata dell’era liberaldemocratica nel mondo contemporaneo (idea espressa con inusitata franchezza in una famosa intervista al Financial Times del luglio 2019).
Riflettendo su questo punto, un volumetto di Vittorio Strada si chiude con una illuminante osservazione di carattere storico, ma aperta sul presente (“Impero e rivoluzione”, il Mulino, 2017). Secondo l’eminente slavista, alla radice della “ideologia russa” c’è una formula triadica, elaborata per la prima volta nel 1832 dal ministro dell’Istruzione Sergej Uvarov: Trono (lo Stato autocratico), Altare (la Chiesa ortodossa), Popolo (lo Spirito nazionale). Dopo l’Ottobre ne seguì un’altra: Marxismo-leninismo, Partito comunista, Popolo sovietico. Attualmente il posto per una nuova triade è vacante né può occuparlo il terzetto “autoritarismo, nazionalismo, militarismo”, con cui si è soliti designare il regime putiniano. Infatti oggi l’impero è nudo. L’unico vestito “è il retaggio glorioso degli imperi zarista e comunista, da Ivan il Terribile e Pietro il Grande a Stalin, che portò la potenza russa al suo apogeo in senso territoriale e ideale, e la cui opera va continuata rimediando al disastro provocato da ‘riformatori’ come Chrusciov e Gorbaciov (e, peggio ancora, Eltsin)”.
A foggiare il nuovo abito dell’imperatore sul modello dell’antico provvede attualmente un atelier di intellettuali che godono del monopolio dei mezzi d’informazione e dell’appoggio della Chiesa ortodossa, che tende a fare del cristianesimo orientale una religione nazionale di Stato. La veste è però fatta, sostiene Strada, di un tessuto trasparente che “vela a stento la nudità, a differenza dei paludamenti dei grandi imperi del passato”. Insomma, Putin ha il gas ed è un abile pokerista, ma “se non vuoi problemi con l’orso russo, non mostrare né paura né aggressività” (proverbio inuit). Finalmente gli americani e gli europei (con qualche eccezione) sembra che vogliano fare tesoro dell’antica saggezza degli eschimesi. Speriamo che non sia troppo tardi.