Ci sono voluti quattro giorni perché gli Usa reagissero alla notizia con cui venerdì scorso il Ministero della Difesa turco ha annunciato l’arrivo ad Ankara delle prime parti del sistema russo di difesa anti-aerea S-400 Triumph.
Un guanto di sfida che non poteva rimanere senza risposta, visti i numerosi e reiterati ammonimenti formulati negli ultimi mesi da Washington al presidente turco Recep Tayyip Erdogan affinché cancellasse l’affare siglato con la Russia di Vladimir Putin con la prospettiva, in caso di non ottemperanza, della più cruda delle ripercussioni: l’esclusione dal programma F-35, di cui la Turchia è partner di III livello.
E se tale clamorosa cacciata non è stata ancora formalizzata, è implicita nel comunicato diramato l’altro ieri dalla Casa Bianca nel quale si sottolinea che l’acquisto dell’S-400 da parte della Turchia “rende impossibile il suo coinvolgimento” nel programma F-35.
Per capire le implicazioni e le probabili conseguenze della mossa turca e della contro-decisione americana, Start Magazine si è rivolto a due persone che conoscono molto bene il programma F-35, l’analista Difesa e Sicurezza del Cesi Paolo Crippa e il direttore della Rivista Italiana Difesa (Rid), Pietro Batacchi. Con il supporto di due prospettive diverse ma complementari, cercheremo di ricostruire la genesi di una contesa che ambedue i nostri interlocutori definiscono senza precedenti per una storica alleanza che ormai fa acqua da tutte le parti.
Sia Crippa che Batacchi non si fanno molte illusioni circa potenziali ripensamenti dell’Amministrazione Trump. L’estromissione della Turchia è infatti per Crippa “la conseguenza inesorabile dell’incompatibilità di fondo tra l’S-400 e gli F-35. Si tenga presente che, avendo sia l’S-400 che gli F-35, la Turchia avrebbe dovuto far volare gli F-35 all’interno del range di azione dell’S-400 solo in modalità non stealth, perché altrimenti avrebbe dovuto dare all’S-400 la firma radar in modalità stealth degli F-35 onde evitare che l’S400 si attivasse per abbatterli. E dare la firma radar di un velivolo con una così sofisticata configurazione di bassa osservabilità avrebbe vanificato il vantaggio dell’F-35, che a quel punto cesserebbe di essere l’arma di punta su cui gli Usa basano la propria superiorità aerea”.
Logiche militari stringentissime avrebbero dunque voluto che Erdogan si astenesse dal solo meditare un acquisto del genere. Perché il presidente turco si sia cacciato in un guaio del genere è cosa che Crippa ritene però non del tutto estraneo alla comprensione. Dobbiamo ricordare infatti “il ruolo ambivalente che la Turchia ha sempre avuto nel rapporto con gli Stati Uniti, con un piede nella Nato e un piede fuori. Una dinamica che si è accentuata dopo il fallito golpe dell’estate di tre anni fa, che ha spinto Erdogan a rendere sempre più indipendente la politica estera turca. L’acquisto dell’S-400 rientra proprio all’interno della priorità di Erdogan di portare avanti una politica estera sempre più libera e ancorata all’interesse nazionale della Turchia. Un interesse che, per lui, può essere tutelato diversificando le fonti di procurement dei sistemi d’arma al fine di evitare un’eccessiva dipendenza dall’alleato Usa e di impedire a Washington di usare i canali di approvvigionamento dei sistemi d’arma come grimaldello ovvero come leva per fare pressioni sul comportamento turco”.
L’acquisto dell’S-400 tutto dunque sembra essere fuorché un atto improvvido e incosciente. Vi si può rintracciare semmai, a detta dell’analista del Cesi, la convinzione – o la presunzione che dir si voglia – di Erdogan che la Turchia sia “un alleato irrinunciabile per gli Usa alla luce della sua posizione strategica nel Mediterraneo e per il suo essere un insostituibile ponte tra Occidente e Oriente. Non dimentichiamo che la Turchia è un partner di primo piano degli Usa dai tempi del contenimento dell’Urss. E che nella base turca di Incirlik ci sono una cinquantina di testate atomiche della Nato”.
Peccato che, se stiamo al comunicato diramato dalla Casa Bianca, la Turchia ora pagherà un prezzo salatissimo. “Credo”, spiega Batacchi, “che nell’arco di qualche mese la Turchia sarà completamente fuori dal programma F-35. Il Pentagono d’altronde stava lavorando a questa ipotesi già da qualche mese. E, oltre a non procedere alla consegna dei due F-35 turchi già ultimati, aveva sospeso l’invio di componenti e manualistica alla Turchia con cui si consentiva alla sua aeronautica di prepararsi a ricevere i velivoli. Inoltre, recentemente Washington aveva intimato al personale turco che era in America ad addestrarsi sugli F-35 di abbandonare il paese entro il 31 luglio”.
Segnali inequivocabili, che Ankara ha preferito ignorare, andando incontro inevitabilmente alle conseguenze ventilate o minacciate dagli Usa, che ora è solo questione di tempo prima che si materializzino. L’esclusione dal programma F-35 peraltro non significherà solo non ricevere i velivoli prenotati. Come nota Crippa, Ankara adesso dovrà “pagare un prezzo a livello sia di know-how tecnologico che di indotto. Da partner di III livello del programma, la Turchia si era garantita infatti la partecipazione di una decina di proprie aziende, tra cui le più importanti sono Tusas Engine Industries, Turkish Aerospace Industries (TAI) e Roketsan, che sono coinvolte nella fabbricazione di 937 componenti dell’F-35, che vanno da parti consistenti come la fusoliera a parti di micromeccanica. L’uscita della Turchia dal programma comporterà necessariamente che queste aziende smetteranno di produrre tali componenti, con una ricaduta a livello industriale nell’arco di un decennio quantificabile in circa nove miliardi”.
Anche gli Usa però non escono indenni dalla diatriba. Per loro, infatti, l’uscita della Turchia significa dover ricollocare la produzione di quelle 937 componenti in patria o nei paesi partner. Ciò avrà un costo che sia Crippa che Batacchi valutano in 5-600 milioni di dollari. “Non una cifra importante per il budget Usa”, sottolinea Crippa, “ma sicuramente significativa”.
Trattandosi però, aggiunge Batacchi, “di componenti non particolarmente critiche, la situazione dovrebbe risolversi in un tempo relativamente breve, diciamo un anno circa. L’offset maggiore riguarda la produzione da parte di Turkish Aerospace Industries della sezione centrale della fusoliera. Ma qualcun altro che la fa”, è convinto il direttore, “si trova”.
E qui si apre un capitolo che potrebbe risultare interessante per Roma. Tra i Paesi candidati a beneficiare dell’uscita della Turchia c’è infatti proprio l’Italia, che com’è noto ospita una delle due linee di produzione dell’F-35 – l’altra è in Giappone – nello stabilimento di Cameri, dove Leonardo (ex Finmeccanica) realizza e assembla molte parti del velivolo, tra cui il cassone alare.
Nella competizione che si scatenerà per accaparrarsi quella torta, l’Italia secondo Crippa parte “avvantaggiata perché ha già un know how in questo settore produttivo e ha poi lo stabilimento di Cameri che è un’eccellenza nel settore Difesa e Aerospazio”. Secondo l’analista non si può dunque escludere che a ricevere l’incarico di realizzare le parti fino ad oggi fabbricate in Turchia siano proprio “Leonardo e la quarantina di piccole e medie imprese altamente specializzate che ruotano nel circuito di Cameri e da cui Leonardo si rifornisce”. Se così fosse, l’affare sarebbe davvero ghiotto. “Basti pensare”, rileva Batacchi, “alla sezione centrale di fusoliera, che è un componente strutturale dell’F-35 abbastanza importante”.
Stappare lo spumante sarebbe tuttavia imprudente, suggerisce il direttore di Rid. E non tanto perché gli Usa non hanno ancora preso una decisione definitiva e irreversibile sulla partecipazione turca al programma F-35.
Il motivo vero per cui Batacchi sconsiglia facili entusiasmi rimanda a “tutto quel che è successo in Italia all’F-35 nell’ultimo anno. Parliamoci chiaro: se non fosse uscita sul Corriere della Sera la notizia che non avevamo pagato le fatture, l’inadempienza probabilmente sarebbe andata avanti. Per non parlare del famoso studio sulla revisione del programma F-35 che non mi risulta sia stato reso noto. O del fatto che l’Italia ancora non si sia impegnata nell’acquisizione di materiali a lunga durata per i velivoli successivi al lotto n. 14. Ci sono insomma tutta una serie di criticità sull’F-35 che agli americani non sono affatto piaciute”.
“Per questo – conclude Batacchi – ritengo improbabile che i fornitori italiani rimpiazzino quelli turchi”.