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Polonia

Vi spiego il fallimento dell’Unione europea. Parla il prof. Ocone

"Io credo che abbia fallito l’Unione europea, non l’idea di Europa. Questa esiste da prima dell’Unione europea, che nel suo svilupparsi non ne ha minimamente tenuto conto, ed esisterà anche dopo. Un punto di svolta è stato il Trattato di Maastricht, firmato nel 1992. Da quel momento l’Unione europea ha accentuato il suo aspetto razionalista e costruttivista". L'intervista a Corrado Ocone, filosofo e saggista.

Corrado Ocone, filosofo, giornalista e saggista, è uno degli intellettuali più vivaci ed eterodossi che vi siano in Italia. Liberale controcorrente, spesso non in linea con gli ambienti del liberalismo italiano. Ha da poco pubblicato per Historica “Europa-L’Unione che ha fallito”, un volumetto molto agile ma esaustivo che spiega in maniera chiara e completa le ragioni del fallimento dell’Unione europea.

Quando, secondo lei, l’Europa ha fallito?

Innanzitutto io credo che abbia fallito l’Unione europea, non l’idea di Europa. Questa esiste da prima dell’Unione europea, che nel suo svilupparsi non ne ha minimamente tenuto conto, ed esisterà anche dopo. Un punto di svolta è stato il Trattato di Maastricht, firmato nel 1992. Da quel momento l’Unione europea ha accentuato il suo aspetto razionalista e costruttivista. Si è trasformata in un progetto costruito, a tavolino, dall’alto ed “imposto” agli europei, dove i paesi più forti impongono le proprie regole a quelli più deboli. Da allora, l’Europa non è stata più concepita come insieme di quei valori che noi chiamiamo “Occidente”, ma come un insieme di regole astratte, stabilite una volta per tutte. Tutto ciò, ovviamente, va contro quello che è il sentimento europeista, che deve prendere concretezza in istituzioni politiche create dal basso.

Cosa ha permesso all’Unione europea di trasformarsi in questo Leviatano?

Vi sono due motivazioni storiche. Noi europei ci siamo disinteressati di ciò che accadeva a Bruxelles, vivendo le elezioni europee come una prassi e non capendo quali ruoli venivano delegati alle istituzioni Ue. Ci siamo così trovati in questa gabbia d’acciaio gestita da questa élite burocratica e tecnocratica. Una gabbia dalla quale si fa fatica ad uscire, come il caso Brexit dimostra. In secondo luogo, siamo arrivati a questo a causa di due ideologie nate a partire dagli anni Ottanta. A sinistra è nata l’ideologia liberal a destra l’ideologia liberista. Queste hanno finito per convergere creando una sorta di pensiero unico “liberal-liberista”. Questa convergenza ha dato vita ad una tecnocrazia che noi ritroviamo in tutte le istituzioni sovranazionali. Uno studio pubblicato dalla Oxford University Press mostra, con dati empirici, come coloro che stanno al Fondo Monetario Internazionale passano dall’Unione europea, per poi passare dal WTO ecc. Queste due ideologie sono illiberali.

Per quale motivo secondo lei?

Il punto di convergenza di queste due ideologie sta nell’antipolitica. La politica, intesa come dialettica (anche conflittuale) tra le forze in campo, è stata indebolita. Questo perché l’ideologia liberal monopolizzando la cultura, all’insegna del politicamente corretto, ha creato una sorta di diritto eticizzato secondo norme astratte, ritenute giuste a priori, che si sono imposte alle decisioni politiche. Il liberismo astratto, invece, sottopone i rapporti politici all’economia. Il liberalismo classico, invece, è fortemente politico. Esso fa riferimento al principio di realtà, secondo la lezione di Niccolò Macchiavelli, e al senso storico, secondo la lezione di Giambattista Vico. Il liberalismo di Alexis de Tocqueville, di Benjamin Costant e di Benedetto Croce non cala dall’alto secondo regole astratte di etica giuridicizzata o di economia, ma si crea dal basso secondo rapporti di forza calati nella realtà storica e contingente, tramite la creazione del maggior numero di spazi di libertà possibili. Hayek è stato il critico più feroce della mentalità costruttivista. Il liberismo della Thatcher e di Reagan era fortemente legato alle tradizioni, era il liberalismo delle comunità politiche esistenti, molto legato all’idea di nazione, senza che lo stato o altre autorità dall’alto interferissero con il singolo. Potremmo definirlo il “liberalismo del produttore” e non il “liberalismo della finanza”.

Nel quinto capitolo del libro lei si chiede se il manifesto di Ventotene sia effettivamente un modello per noi. Perché questa perplessità?

Ovviamente anche questo manifesto va considerato nel suo contesto storico. Esso voleva essere solamente un pamphlet di battaglia politica. La premessa del manifesto di Ventotene sta nella differenza sostanziale tra nazifascismo e comunismo, quindi secondo Spinelli il socialismo doveva rappresentare il futuro, mentre il liberalismo rappresentava quel passato che aveva portato proprio al fascismo. Questa visione è stata portata avanti sia dai comunisti sia dagli azionisti, che non erano comunisti ma non erano anticomunisti e vedevano un’asimmetria tra comunismo e nazifascismo. Mentre i liberali della Guerra Fredda, come Hannah Arendt o Raymond Aron, hanno evidenziato questa simmetria. Il manifesto di Ventotene punta, chiaramente, a creare un’Europa socialista. Spinelli e Rossi pensano ad un superstato socialista che promuova ideali astratti di progresso, di giustizia ecc. Non pensano ad un unione di diversità come la può pensare un liberale. Io scrissi questo quando Renzi portò la Merkel a Ventotene.

Winston Churchill nel discorso tenuto all’Università di Zurigo parlò di Stati Uniti d’Europa, riferendosi però ad una confederazione sul modello elvetico che non poteva prescindere da un rapporto di amicizia con gli Stati Uniti d’America, mentre oggi l’Unione europea pensa di farne a meno. Si riconosce di più in questo secondo disegno?

Sono perfettamente d’accordo con il modello elvetico. L’Europa deve cercare una sua unità ma non deve andare contro la sua identità fatta di diversità, anche notevoli. Le specificità vanno esaltate. Per quanto riguarda il rapporto con gli Stati Uniti, anche in questo caso siamo stati vittima del pensiero liberal-liberista, secondo il quale l’Unione europea doveva essere amica degli Stati Uniti quando c’era Obama e ora che c’è Trump non deve più esistere. L’Europa come può a fare a meno degli Stati Uniti senza investire un soldo nella difesa? Va anche detto che ci siamo, oramai, accorti che Trump non è lo stupido che la nostra stampa ha raffigurato. Egli rappresenta un’America diversa da quelle delle élites, che vuole far sentire il suo peso in una dialettica che si confà ad una grossa democrazia della sua portata, questo il pensiero liberal non lo sopporta. Gli Stati Uniti sono Europa, sono l’Europa oltre l’Oceano, sono entrambi della stessa madre che si chiama “Occidente”.

(estratto di un’intervista pubblicata su Atlantico Quotidiano; qui la versione integrale)

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