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Tutti gli errori dell’Italia su Cina e Nuova Via della Seta. Parla il sinologo Sisci

Conversazione di Start Magazine con Francesco Sisci, uno dei maggiori sinologi ed esperti di Cina

“È vero che l’Italia è il terminale naturale delle vie della seta, che in origine finiva, o iniziava a seconda dei punti di vista, proprio nel Mediterraneo. Quindi l’Italia, che è nel centro del Mediterraneo, non può che essere coinvolta. Ma qui c’è un punto tutto politico: l’Italia non può prendere l’iniziativa senza parlarne con l’America, con la Francia, la Germania e i paesi africani. Questo finora è mancato. Manca del tutto il quadro politico, e l’Italia è totalmente impreparata su questo”. Parla Francesco Sisci, uno dei maggiori sinologi ed esperti di Cina, intervistato da Start Magazine

 

Non usa mezzi termini Francesco Sisci per commentare l’imminente adesione dell’Italia alla Belt and Road Initiative (BRI), le “nuove vie della seta” cinesi. Per l’illustre sinologo, quella del nostro paese è una “scelta sciocca”. Maturata, per di più, “in perfetto isolamento”, senza consultare nessuno, nemmeno il nostro maggior alleato, gli Stati Uniti, che è giustamente contrariato.

Una “leggerezza” imperdonabile, la definisce Sisci, che mette in luce la temerarietà di questo governo, lanciatosi senza riflettere – e senza considerare le conseguenze – in un progetto dagli ovvi risvolti geopolitici che non possono essere presi così alla leggera.

In questa intervista concessa a Start Magazine, Sisci spiega tutte le sue perplessità. Ma ci tiene, anzitutto, a sottolineare cosa sia la BRI, quale valenza abbia per la seconda economia del mondo, quali suggestioni storiche recuperi e quali esigenze intende soddisfare.

Cos’è dunque, Sisci, “una cintura, una strada”?

E’ un’iniziativa senz’altro molto importante. Un’iniziativa che, dal punto di vista geografico, era necessaria: il territorio della Cina è per tre quarti infilato nell’Asia centrale. E l’Eurasia, il più grande continente del pianeta, a seguito della conquista turca di Costantinopoli e poi del blocco turco del Mediterraneo orientale, è stata saltata per secoli. Una situazione che fu risolta grazie agli spagnoli e ai portoghesi, che aprirono la via alle Indie attraverso l’America. La battaglia di Lepanto è del 1570, lo stesso anno in cui gli spagnoli stabilirono Manila come loro centro di commercio con l’Asia e verso il Messico. Questa rotta euroasiatica è durata per secoli e oggi è giusto e naturale che se ne riapra una diversa. Questa rotta non può che coinvolgere direttamente la Cina, con un’iniziativa di apertura commerciale euroasiatica che è giustamente ambiziosa.

Sembra proprio che l’Italia abbia colto perfettamente il senso dell’operazione di Pechino e sia alquanto interessata ai vantaggi che potrà offrirci.

L’iniziativa italiana, in linea di principio, va bene. Il problema è che tutto dovrebbe essere concordato con gli Stati Uniti, che rimangono il nostro principale alleato e partner commerciale. Se l’Italia pensa di avviare un’iniziativa così importante e significativa anche dal punto di vista simbolico, deve necessariamente parlarne con l’America. Non farlo sarebbe pura follia: significherebbe non possedere l’ABC della politica.

Può spiegarsi meglio?

La Belt and Road non è una cosa che l’Italia può fare in perfetto isolamento. È un cambiamento epocale, che rilancia quattrocento anni di storia di relazioni politiche e commerciali. È vero che l’Italia è il terminale naturale delle vie della seta, che in origine finiva, o iniziava a seconda dei punti di vista, proprio nel Mediterraneo. Quindi l’Italia, che è nel centro del Mediterraneo, non può che essere coinvolta. Ma qui c’è un punto tutto politico: l’Italia non può prendere l’iniziativa senza parlarne con l’America, con la Francia, la Germania e i paesi africani. Questo finora è mancato. Manca del tutto il quadro politico, e l’Italia è totalmente impreparata su questo.

Una questione di metodo, dunque.

Certamente. Sulla Corea del Nord, l’America parla con tutti: cinesi, sudcoreani, giapponesi, russi. È così che si procede, perché occorre creare un consenso ampio, perché ogni rapporto bilaterale delicato ha un impatto molto più ampio. Tanto più quando ci sono alleati di mezzo. È impossibile muoversi in solitudine, non porta risultati positivi ma solo danni complessivi.

Se dobbiamo prestare ascolto a quel che dice l’uomo che sta seguendo il dossier, il sottosegretario al Mise Michele Geraci, l’Italia ha motivi evidenti per procedere: le nostre esportazioni in Cina languono rispetto al bottino di altri paesi europei come Francia, Germania e Gran Bretagna. La BRI è in questo senso lo strumento perfetto per centrare questo obiettivo così importante per la nostra economia altrimenti boccheggiante.

Io capisco i ragionamenti del sottosegretario, ma mi tocca ripetere il punto: non possiamo permetterci il lusso di operare da soli una scelta così strategica. Non ha senso sottolineare che dobbiamo esportare di più in Cina se poi non consideriamo insieme agli altri l’architettura entro cui gli scambi con la Cina dovrebbero avere luogo. Non ha senso a maggior ragione se consideriamo che l’America adesso ha una guerra commerciale in atto con la Cina, e in questo momento è ridicolo che l’Italia si metta a fare ponti con la Cina. È un’operazione che avrebbe senso solo se l’Italia desse sostanza ad una proposta politica, che però manca del tutto. Così come è stata fatta adesso, la scelta italiana è una scelta sciocca. Infatti…

Prego.

Ci piaccia o non ci piaccia, l’Italia è parte del sistema americano. Quindi, noi possiamo fare delle cose alla luce di quello che l’America ci dice o che concordiamo con lei. Non avendo in questo caso concordato nulla con Washington, ne consegue che tutto quello che annunciamo di voler fare con la Cina è aria fritta. Che ci mette in una situazione imbarazzante sia con l’America, sia con la Cina. Con la Cina dimostriamo, come al solito, di essere dei gradassi, di annunciare delle cose che poi non possiamo fare. All’America, invece, andiamo a fare uno sgambetto in un momento particolarmente difficile. Quindi gratuitamente, senza alcuna idea, senza alcun vantaggio, noi stiamo costruendo una situazione pericolosa.

Le faccio una provocazione: non è che l’Italia, aderendo alla BRI per prima tra i paesi del G7, sta compiendo la scelta pionieristica di schierarsi con la futura potenza egemone? In altre parole, quella che lei definisce una scelta sciocca non potrebbe invece essere definita lungimirante?

Se l’Italia decidesse di cambiare allineamento politico e militare, farebbe una scelta legittima. Ma per fare questo ci vuole preparazione politica, visione. A me sembra che non ci sia nulla di tutto questo. Quella italiana mi pare una scelta non pensata, fatta senza sapere leggere e scrivere. Una scelta del genere, di cambio di allineamento geopolitico, sarebbe importantissima per il paese e presenterebbe, oltre a degli ovvi rischi, anche delle opportunità, questo è innegabile. Ma io mi chiedo: alla Cina serve davvero un alleato antiamericano in Europa? Ripeto il concetto: a me sembra che non ci sia alcun calcolo strategico di fondo, ma pura leggerezza.

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