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Elia Kazan

Elia Kazan, un comunista pentito

Il Bloc Notes di Michele Magno

Washington, 10 aprile 1952: Elia Kazan testimonia davanti alla Commissione per le attività antamericane. Era già stato interrogato il 14 gennaio, ma allora aveva scelto di rispondere solo alle domande sulla sua passata appartenenza al Partito comunista, e di mantenere il silenzio sugli altri militanti. Questa volta, invece, accetta di fare i loro nomi. Una decisione, pur sofferta, che getterà un’ombra infausta sulla sua figura.

Los Angeles, 21 marzo 1999: l’anziano regista, presentato da Martin Scorsese e Robert De Niro, riceve l’Oscar alla carriera. Nella platea dello Shrine Auditorium non tutti si alzano per applaudirlo. Ed Harris e Nick Nolte restano seduti, e non fanno nulla per nascondere il loro disappunto. La cerimonia dimostra che le ferite del maccartismo non si erano ancora rimarginate. Contro il riconoscimento dell’Academy si schierano anche Rod Steiger e Marlon Brando, che avevano lavorato con lui in “Fronte del porto”. Viene invece difeso da Arthur Miller, anche se la sua antica amicizia con Kazan si era incrinata da molto tempo.

New York, 28 settembre 2003: Kazan muore all’età di novantaquattro anni, di cui gli ultimi ventisette passati senza lavorare come regista cinematografico e teatrale. I giornali ricordano i suoi film e la sua abilità nello scoprire talenti come Brando e James Dean. Ma sono implacabili nella condanna del gesto compiuto mezzo secolo prima, ma da lui rivendicata in “A Life”, l’autobiografia pubblicata nel 1988.

Elia Kazanjoglu, questo il suo vero nome, era nato a Costantinopoli da una famiglia di greci dell’Anatolia. Nel 1913 emigra negli Stati Uniti e si stabilisce a New York. Frequenta il Williams College, poi va a Yale per studiare drammaturgia. Presto si unisce al Group Theatre, una compagnia fortemente di sinistra, punto di riferimento della vita artistica e del pensiero radicale all’epoca della Grande depressione. Il Group Theatre è guidato, tra gli altri, da Lee Strasberg, che sarà il fondatore dell’Actor’s Studio insieme allo stesso Kazan.

Nel 1934 si iscrive al Partito comunista. Lo lascia dopo meno di due anni, in contrasto con il suo obiettivo di impadronirsi della compagnia teatrale. Nel decennio successivo si afferma come uno dei registi più importanti di Broadway. È lui a mettere in scena per la prima volta “Un tram chiamato desiderio” di Tennessee Williams e “Morte di un commesso viaggiatore” di Miller.

Quando viene chiamato a testimoniare davanti alla Commissione, all’inizio del 1952, Kazan è un regista famoso anche per i suoi film (nel 1947 aveva vinto il suo primo premio Oscar con “Barriera invisibile”). Fino ad allora si era tenuto fuori dalla bufera maccartista, evitando di partecipare alla celebre riunione del sindacato (ottobre 1950) in cui John Ford e Joseph Mankiewicz si opposero a Cecil B. De Mille, secondo il quale ogni regista avrebbe dovuto sottoscrivere una dichiarazione di patriottismo per non rimanere disoccupati.

L’assenza di Kazan viene tacciata di opportunismo, considerando anche che nel 1947 aveva fatto fallire la trattativa con Bertold Brecht per l’allestimento della “Vita di Galileo”, temendo che la sua fama di comunista avrebbe potuto metterlo in difficoltà. Comunque, fino al 1952, Kazan si rifiuta di partecipare alla caccia alle streghe aperta da Joseph McCarthy. Nel febbraio del 1952, però, avviene un fatto che peserà sulle sue scelte future. La Commissione presieduta dal senatore del Wisconsin critica pubblicamente l’industria del cinema per il suo scarso impegno anticomunista. A quel punto, Kazan vacilla. I più potenti produttori di Hollywood pretendono un autodafè.

Il regista, quindi, si convince che è giunto il momento di parlare. E fa i nomi degli iscritti alla cellula comunista del Group Theatre, tra cui Clifford Odets, Susan Strasberg, Phoebe Brand e John Garfield, una delle vittime più illustri del maccartismo. Il gesto provoca un diffuso risentimento nei suoi confronti. Diventa sua acerrima nemica la commediografa Lilian Hellmann, compagna dello scrittore Dashiell Hammet.

Come ha osservato Anna Parodi (“Elia Kazan: l’anima nera di Hollywood?”, in “C’era una volta in America”, Edizioni Falsopiano, 2004), Kazan cede non soltanto per le pressioni delle case cinematografiche, ma anche per il suo desiderio di essere fino in fondo americano. Ma un regista del suo calibro era davvero con le spalle al muro in quella primavera del 1952? Walter Bernstein, sceneggiatore del film di Martin Ritt “Il prestanome” (1976), che racconta proprio l’era maccartista, lo incolpa di aver legittimato la caccia alle streghe rinnegando il suo passato. Ben diverso era stato il comportamento degli “Hollywood Men”, ovvero i dieci sceneggiatori e registi che si erano rifiutati di collaborare con la Commissione, e che per questo furono incarcerati per oltraggio alla corte (i più noti erano Dalton Trumbo, Edward Dimytrik, John Lawson). Per la loro liberazione si mobilitarono personalità del cinema come Gregory Pech, William Wyler, Humphrey Bogart, Lauren Bacall, John Huston, Burt Lancaster, Paulette Godard, Frank Sinatra.

Negli anni successivi al suo pentimento la carriera di Kazan conosce un nuovo fulgore, con successi come “Fronte del porto” (1954), “La valle dell’Eden” (1955), “Baby Doll” (1956) e “Splendore sull’erba” (1961). Poi la sua stella si appanna. Anche il suo film più autobiografico, “America, America” (1963), conosciuto in Italia col titolo “I ribelle dell’ Anatolia”, si rivela un flop commerciale. È il primo passo verso un lungo e doloroso viale del tramonto.

 

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