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Elezioni a Taiwan: sfide e scenari

Le elezioni a Taiwan saranno determinanti anche per i rapporti con la Cina, che rivendica la propria sovranità sull'isola. L'intervista di Marco Orioles a Stefano Pelaggi, ricercatore alla Sapienza di Roma, analista geopolitico e autore di “L’Isola sospesa".

Sabato a Taiwan si celebra un voto cruciale per scegliere non solo il successore della presidente Tsai Ing-wen ma anche il futuro delle relazioni con quella Cina continentale che rivendica la sovranità sull’isola e non ha mancato di far sentire la propria ingombrante pressione anche durante questa campagna elettorale. Di quella che negli anni Novanta è diventata la prima democrazia di lingua e cultura cinesi e per il controllo della quale si potrebbe scatenare nel Pacifico la terza guerra mondiale, Start Magazine ha parlato con Stefano Pelaggi, ricercatore alla Sapienza di Roma, analista di Geopolitica.info e autore di “L’Isola sospesa. Taiwan e gli equilibri del mondo” (Luiss University Press).

Ci racconta in breve la storia di questo piccolo Paese indipendente de facto che è Taiwan?

Taiwan è una nazione dove abitano 23 milioni di persone che si definiscono taiwanesi. Una nazione tuttavia che non gode del riconoscimento della maggior parte degli altri Stati malgrado abbia un proprio esercito, una linea aerea, una valuta, una Banca centrale, una Borsa dove sono quotate molte società tecnologiche di successo. Nonostante questo Taiwan non ha un seggio alle Nazioni Unite e non viene invitata alle riunioni delle organizzazioni internazionali.

Tutto questo perché la Cina la considera una sua provincia ribelle destinata ad essere annessa.

Sì, il dossier Taiwan è irrisolto dal 1949 e vede ambedue le entità rivendicare lo stesso territorio: Taiwan dice di rappresentare tutto il territorio cinese mentre Pechino rivendica la sovranità anche sull’isola. Questa frattura è frutto di circostanze storiche ben precise e si è aggravata negli ultimi trent’anni con la svolta politica di Taipei.

Che ha sposato in pieno la democrazia.

Sì, negli anni Ottanta è cominciato un processo di democratizzazione che è stato portato a termine nel decennio successivo, quando Taiwan è diventata la prima democrazia in un luogo di lingua e cultura cinesi. Oggi tra l’altro Taiwan figura invariabilmente alla testa delle classifiche nel continente asiatico sugli indici democratici come il rispetto della libertà di stampa e la tutela delle minoranze. C’è persino il matrimonio gay legale, mentre l’attuale presidente è una donna, la prima eletta democraticamente nell’area senza che vantasse vincoli di parentela coi predecessori. Tutto questo ci dà la misura di Taiwan come un’altra Cina, divisa dalla Repubblica popolare da da una vera e propria muraglia fatta di diritti.

Taiwan va ora al voto per scegliere il nuovo presidente e i rappresentanti in Parlamento: che peso ha il fattore Cina?

Nonostante noi osservatori esterni tendiamo a guardare le prossime elezioni con questo prisma, in realtà a Taiwan, proprio come in qualsiasi altra democrazia, si vota pensando alle pensioni, alla disoccupazione, per cose insomma legate alla pancia. Non è affatto una votazione pro o contro la Cina, tanto più che i due principali schieramenti opposti, quello dei democratici progressisti e quello del Kuomintang, si distinguono per legami di tipo addirittura tribale, tali da far pensare alla familiare disfida tra Don Camillo e Peppone.

Tuttavia proprio sulla Cina i due partiti hanno posizioni abbastanza diverse, vero?

Sì. Il Kuomintang ad esempio si dice a favore di una cooperazione economica molto stretta con la Repubblica popolare, malgrado in passato, nell’epoca della dittatura, fosse il partito anticinese per antonomasia. Va detto però che il minimo comune denominatore di ogni partito taiwanese che aspiri a prendere più dell’1% è la difesa della sovranità dell’isola, su cui concorda anche il Kuomintang. Ci sono semmai sfumature come ad esempio sull’opportunità di mantenere aperte o meno tutte le linee di comunicazione con Pechino. Ciò riflette un’opinione pubblica compatta nel difendere l’identità specifica di Taiwan. Ben pochi nell’isola sono disposti a valutare l’ipotesi dell’unificazione, anche se ciononostante si mantiene quel realismo politico che impedisce di spingere anche nell’opposta direzione della dichiarazione di indipendenza. In poche parole, la popolazione vuole lo status quo.

I favoriti in questa tornata elettorale sono i democratici progressisti della presidente uscente Tsai, che sulla Cina hanno una posizione abbastanza netta.

Sì, stiamo parlando del partito che negli anni è diventato più vicino a una soggettività taiwanese. Sebbene nessuno nel partito parli di indipendenza, è sicuramente il partito che si pone più in contrapposizione con Pechino e in aperto contrasto con l’approccio dialogante del Kuomintang. Non a caso durante il mandato di Tsai si è di fatto interrotto ogni rapporto con la Cina.

Questa campagna elettorale è stata segnata anche dai tentativi di interferenza di Pechino, che ha ad esempio lanciato una ventina di palloni spia che hanno minacciosamente attraversato lo spazio aereo di Taiwan. Che segnali sono?

In realtà questa è una costante delle elezioni a Taiwan, sebbene più recentemente la pressione di Pechino si sia fatta più forte, come dimostra una retorica che ha raggiunto livelli parossistici. Tuttavia la storia ci insegna che, quando i taiwanesi sono stati costretti con la forza a dover scegliere, hanno sempre scelto in maniera opposta a quanto desiderava Pechino. Penso dunque che nemmeno stavolta queste azioni influiranno sull’esito elettorale.

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