Caro direttore,
non si finisce mai di imparare. L’altro giorno ho scoperto che nutrire riserve o dubbi sull’attuale funzionamento della democrazia è peggio che sbagliato. Devo la scoperta a un autorevolissimo politologo il cui straordinario cursus honorum può solo far sognare i suoi più o meno giovani colleghi, Gianfranco Pasquino, che su Domani scriveva: “Tutt’altro che malandata, come troppi noiosi e sussiegosi commentatori continuano a ripetere, la democrazia funziona”.
Sarebbe però un errore prendere per arrogante il tono tranchant del professor Pasquino. Come già il suo maestro Giovanni Sartori (Vanni per gli amici) tende solo a spazientirsi coi lettori, che per un docente sono un po’ studenti: sempre a dover ripetere cose ovvie a quelle teste dure!
Purtroppo, nemmeno chi come il sottoscritto si sforza di praticare una certa apertura mentale, riesce a capire in termini fattuali l’incrollabile fede nell’attuale più che buono stato di salute delle democrazie occidentali.
Per esempio, il fatto che sia ormai di ordinaria amministrazione, non solo nel territorio metropolitano dell’impero, gli Stati Uniti ma anche in Paesi non proprio marginali del G7 come Francia e Italia, che il confronto elettorale sia vissuto come uno scontro esiziale che minaccia la sopravvivenza del regime democratico, non parrebbe un’anomalia secondaria. In ultima analisi il senso minimo di un regime democratico dovrebbe essere proprio quello di consentire un avvicendamento alla guida dello Stato di forze anche antagoniste senza che questo significhi ogni volta insanabile spaccatura del corpo politico-sociale. O no?
Ma per rimanere all’attualità di queste settimane che offre lo spunto alle riflessioni del politologo, mancato sindaco progressista di Bologna, è proprio la “spiegazione” che offre di questa sorprendente (quanto meno per i “troppi noiosi e sussiegosi”) buona salute della democrazia, ricollegandola alla “buona affluenza alle urne in Gran Bretagna e in Francia”, a suggerire qualche dubbio, e non solo perché, in Gran Bretagna, quest’anno i votanti sono stati 28,7 milioni contro 32 milioni abbondanti cinque anni fa. Il vero dubbio nasce dalla “lezione” che si dovrebbe ricavare dai responsi delle urne britanniche e francesi: “l’astensionismo può essere ridotto (anche) se e quando i partiti vogliono e sanno offrire alternative programmatiche, politiche, valoriali chiare e credibili”.
In una delle probabilmente pessime letture che mi concedo, nella specie un’analisi di Spectator, si può leggere come la vittoria di Starmer, in termini di collegi, sia stata ottenuta senza colpi d’ala demagogici ma con un lavoro certosino nella raccolta dei voti in funzione delle peculiari caratteristiche del sistema elettorale britannico e quindi dei singoli collegi uninominali. Di voti il Labour ne ha raccolti un po’ meno di cinque anni fa (ciò che non ha impedito al Corsera di titolare a tutta pagina “Gran Bretagna, valanga laburista”) ma ha saputo “spremerne” il massimo in termini di maggioranza in ogni singolo collegio. Il contributo delle “alternative programmatiche, politiche, valoriali chiare e credibili” è ancora tutto da studiare anche perché Starmer, saggiamente, in tutti questi anni di scalata alla premiership è sempre stato parco e misurato nelle dichiarazioni pubbliche, bastando e avanzando il disfacimento autoprodotto dei Tories, le cui conseguenze sono finite tutte sulle spalle del meno peggio della compagnia, Rishi Sunak.
Mentre la frana dei conservatori ha confermato le migliori o peggiori previsioni, l’unica valanga in termini i voti è stata quella che ha spalancato le porte della Camera dei Comuni all’innominabile Nigel Farage, moltiplicandone per sette la dote elettorale e facendone, in termini di voti, il terzo partito del Regno Unito; ma temo che la sua “offerta” valoriale e programmatica non abbia nulla a che vedere con le alternative propugnate da Pasquino.
Quanto alla Francia, mi pare che bastino le parole di Romano Prodi su HuffPost: “Emmanuel Macron ha vinto la sua scommessa, ma io continuo a pensare che avrebbe fatto meglio a non farla. È stato un apprendista stregone, il secondo round ha di molto ridimensionato il suo ruolo. Un azzardo perché ora è difficilissimo mettere insieme chi ha votato contro Marine Le Pen, mentre prima c’era un’Assemblea Nazionale che in qualche modo funzionava”.
Ma sappiamo entrambi, caro direttore, che questi sono discorsi di lana caprina. L’evidente deficit di democrazia in Europa non si colloca né a Palais Bourbon né a Westminster né nel palazzo del Reichstag. Chiamala Unione Europea se vuoi privilegiare il ruolo del groviglio istituzionale che pretende di fondare il potere di fatto della fortezza burocratica di Bruxelles sulla sovranità svuotata degli Stati membri e sulla fittizia legittimità democratica del Parlamento europeo, sinora un elefantiaco organismo sostanzialmente teleguidato dalla Commissione europea (tra i tanti, l’affare Qatar docet). La prospettiva di estendere alla difesa e magari ad altre materie ancora la regola della maggioranza nei Consigli europei, mantenendo invariato il rimanente assetto istituzionale, non farà che estendere i poteri di fatto di Palazzo Berlaymont e correlativamente ampliare il deficit di democrazia.
Questa contraddizione si può risolvere solo con il “salto” istituzionale dall’attuale groviglio alla Federazione – sovrana a pieno titolo – degli stati nazionali europei. Ma sappiamo che di questo non si deve parlare e di fatto non si parla, perché non è una prospettiva “realistica”. E sappiamo che non è realistica perché non fa comodo nè ai mandarini di Bruxelles (che non hanno nessun interesse ad assumere responsabilità politiche sottoponendosi al controllo di un parlamento vero), né ai sopravvissuti delle classi politiche degli Stati membri la cui sovranità, benché svuotata, è ancora discretamente generosa in prebende, trattamenti da business class e nell’impagabile privilegio di leggere le proprie banalità quasi tutti i giorni su quasi tutti i giornali; senza dimenticare il piacere ineffabile del comando ancorché, nel caso dei governi nazionali si tratti, nella quotidianità, di telecomando.
Il prezzo è modesto, si tratta solo dell’esproprio della sovranità politica dei cittadini europei, ma in fondo che cosa sono i cittadini europei, se non disciplinati consumatori un po’ sovrappeso, che oltretutto hanno ormai anche il vizio di votare prevalentemente a destra (il potere burocratico sta per definizione a sinistra, così come la Confindustria era per definizione governativa, almeno finché è esistito un governo più o meno degno del nome)? Ed è anche vero che della deriva destrorsa sono responsabili i maneggi di Putin sicché è non solo legittimo, ma doveroso reprimerla, questa deriva, togliendo con le dovute forme i relativi voti dal conto, precisamente in nome della democrazia. Che grazie al cielo e a Putin gode di ottima salute.