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Pd Draghi

Ecco tutte le contraddizioni di Renzi e Zingaretti su crisi, Salvini, riforme e manovra

Il commento di Gianfranco Polillo

 

La posizione del Pd è sempre più indecifrabile. Va detto senza acrimonia, ma come semplice constatazione oggettiva. Le mille anime del partito vanno bene. Ma poi occorre una qualche sintesi che dimostri l’esistenza di un partito. Altrimenti è come sparare alla luna. Altra condizione è una certa coerenza delle singole posizioni, che si confrontano.

Matteo Renzi propone un governo istituzionale per la gestione della campagna elettorale. È comprensibile. Ma accogliere il grido dei 5 stelle sul taglio dei parlamentari che c’entra? Tanto più che quella riforma viene giudicata, da lui stesso, un pateracchio: ”Considero la riduzione dei parlamentari – ha detto nella sua intervista al Corriere – una riforma incompleta e demagogica”. Il che, trattandosi di una riforma di carattere costituzionale, non è proprio un buon viatico. Ancora oggi, stiamo piangendo sulla riforma del Titolo V, che fu voluta ed imposta dal Pd di allora, per sottrarre argomenti al centro-destra, in vista della campagna elettorale.

Votare a favore di quella riforma, significa allungare il brodo della legislatura almeno di un anno. Occorrerà, se non cambiare, almeno modificare profondamente l’attuale legge elettorale. Altrimenti interi territori rischiano di non avere una rappresentanza parlamentare adeguata. Triplo salto mortale. Date le difficoltà, si dovranno, come minimo, ridisegnare i collegi elettorali. Ed aspettare, comunque, i tempi previsti per l’eventuale indizione del referendum. Bene che vada se ne parlerà tra diversi mesi. Si ritorna, anche in questo caso, allo stesso nastro di partenza.

C’è poi il generale inverno che incalza. Una manovra di bilancio che, nelle attuali condizioni di debolezza politica dell’Italia, non potrà che essere deflativa. Scritta a Bruxelles più che a Roma. Chi se ne assumerà la responsabilità? Un Governo istituzionale richiede comunque una maggioranza parlamentare. Il Pd è disposto ad immolarsi in un cul de sac, costringendo gli italiani ad un altro anno di galleggiamento, senza prospettive? Purtroppo l’Italia, dopo dieci anni spesi nel gestire un programma “scritto sotto dettatura” (copyright di Luigi Oscar Scalfaro) si trova di fronte ad un bivio. Richiede quel coraggio (Carlo Calenda) che incomprensibili tatticismi parlamentari soffocano sul nascere.

Ugualmente incomprensibile è, tuttavia, la posizione di Nicola Zingaretti. Il detto “ubi maior minor cessat” vale anche nei Regolamenti parlamentari. Non ha senso chiedere un voto di sfiducia nei confronti di Matteo Salvini, nel momento in cui si sta discutendo delle sorti dell’intero Governo. Le prassi parlamentari, da questo punto di vista, sono cristalline e costanti. Ogni qual volta si pone la questione di fiducia nei confronti del Governo, tutte le subordinate – che si tratti di emendamenti o ordini del giorno – decadono per consentire all’Assemblea di esprimersi sulla questione principale.

La logica di questo principio è fin troppo evidente. Si immagini, ad esempio, che la mozione contro Salvini sia respinta. Vi sarebbe sarebbe un consolidamento dell’attuale Governo, che subito dopo potrebbe essere sfiduciato. Un evidente controsenso. Facile, quindi prevedere, senza incredibili colpi di schiena, quale saranno le decisioni della prossima Conferenza dei Capi gruppo, nel solco di una consolidata tradizione. Ma la mossa di Zingaretti – si potrebbe obiettare – è soprattutto comunicazione. Bastona il cane che affoga, secondo il vecchio detto di Mao Tze Tung.

Ma il punto è proprio questo. Anche nel comunicare ci vuole un minimo di coerenza. Altrimenti è fiato sprecato.

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