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Kurdistan

Ecco il vero progetto geopolitico di Johnson. L’approfondimento di Polillo

Come si muoverà Boris Johnson dopo la netta vittoria il 12 dicembre alle elezioni nel Regno Unito. L'analisi di Gianfranco Polillo

Con il passare delle ore le ragioni della Brexit diventano più chiare. Elemento che spiega la netta vittoria di Boris Johnson. Il sapore di una svolta storica, che ricorda quella dei tempi lontani. Quando Winston Churchill mise fine ai patteggiamenti (il Trattato di Monaco) di Neville Chamberlain, preparandosi alla guerra contro il Terzo Reich. Oggi, per fortuna, le cose sono diverse. Ma vale sempre il vecchio argomento di Carl Von Clausewitz, secondo il quale, com’è noto, la guerra altro non era che “la continuazione della politica con altri mezzi”. Relazione, ovviamente, reversibile.

E che oggi il conflitto, seppure latente, sia una della componente fondamentale delle trasformazioni, che stanno intervento nei grandi equilibri mondiali, è fuori discussione. Alcuni dei grandi protagonisti passati, come la Russia, sono stati ridotti al rango di potenza regionale. Altri, come la Cina, sono divenuti i pivot del futuro equilibrio mondiale, in cui brillerà solo questa stella in competizione con gli Stati Uniti, al di là del Pacifico. Il resto, Europa compresa, ha solo una dimensione locale. Saranno, se va bene, la retrovia dei nuovi attori della grande politica. Ma poco di più.

In questa nuova complicata geopolitica, l’Eurozona è meno del tradizionale vaso di coccio, tra le due super potenze. La leadership tedesca ne condiziona gli sviluppi futuri. Non ha, a sua disposizione, quella potenza ed esperienza militare, senza la quale, è difficile contare nelle grandi dispute internazionali. La stessa Francia, che alcune di quelle qualità mantiene, non ha le risorse necessarie per poter rivendicare un suo primato. Deve quindi accodarsi e spendersi, come si è visto nell’abbattimento di Gheddafi, in Libia, solo per lucrare qualche piccolo tornaconto immediato. Ma per il resto è impotente, nonostante la sua “force de frappe”. Lo si vede chiaramente nelle difficoltà che incontra il suo presidente Emmanuel Macron.

E allora? La risposta è Global Britain: il manifesto lanciato lo scorso febbraio a Westminster, alla presenza dello stesso Johnson. Una “visione per il XXI secolo”, come recitava lo slogan della manifestazione. Progetto rischioso, ma tutt’altro che velleitario. L’idea è quella di dare voce politica, sotto l’egida dell’Union Jack, a Paesi che sono già una potenza economica, ma che non riescono ad incidere nei grandi equilibri mondiali. Paesi come il Canada, continenti come l’Australia, o il mondo del vecchio Commonwealth, con l’India in testa. Negli anni ‘70 palla al piede del vecchio impero britannico. Oggi realtà emergenti delle nuove élite mondiali. Ne sa qualcosa l’Italia alle prese con il caso Ilva.

Le basi materiali, come si diceva una volta, di questa strategia sono fornite dagli andamenti più recenti del ciclo economico inglese: sempre più simile, nel tracciato, a quanto avviene negli Stati Uniti, piuttosto che nell’Eurozona. Effetto di una reciproca attrazione: dovuta soprattutto dal prevalere della grande finanza e dei servizi sul resto dell’economia. Dopo la crisi del 2007 le distanze, in termini di tasso di sviluppo, tra la Gran Bretagna e l’Eurozona sono progressivamente cresciute. Alla fine di quest’anno, secondo le previsioni del Fondo monetario, la differenza sarà di oltre 7 punti base. Esattamente a metà strada tra il tasso di crescita cumulato negli Stati uniti e quello dell’Eurozona.

Nell’immaginario collettivo inglese si è fatta strada l’idea che il Vecchio continente abbia, ormai scelto di non crescere, da un punto di vista economico, dando priorità ad altre esigenze: il welfare, l’equità, l’ambiente. Temi evocati non solo nella tradizione italiana, dove forse l’enfasi riposta è anche maggiore. Per la verità, questo non è del tutto vero, dato che l’Europa a 27, a sua volta, cresce ad un ritmo maggiore del complesso dell’Eurozona. Ma si tratta di dettagli. In queste zone, del resto, la presenza tedesca è più strutturata, anche grazie ad una contiguità territoriale che genera una specie di protettorato economico. Il diverso grado di sviluppo complessivo di quelle aree, nonché l’oggettiva limitatezza di quei mercati rende la partita di scarso interesse, almeno per gli Inglesi.

Sarebbe, comunque, doveroso per Bruxelles un minimo di approfondimento. L’assenza di bardature burocratiche, più volte criticate, ha consentito a Londra di muoversi con maggiore scioltezza, superando i tabù dell’eccesso di rigore finanziario. Dal 2003 il suo deficit di bilancio è stato sempre superiore a quello dell’Eurozona. Contribuendo ad alimentare il deficit delle partite correnti della sua bilancia dei pagamenti. Che ancora nel 2019 presenterà uno sbilancio del 2,5 per cento, contro il 3,5 per cento degli Usa. Ed un surplus dell’Eurozona pari al 2,8 per cento del Pil. Inevitabili i riflessi sul rapporto debito/Pil: cresciuto ad un ritmo maggiore. Nel 2019 sarà pari all’85,6 per cento. Quasi uguale a quello dell’Eurozona (83,9, ma Londra partiva da una base molto più contenuta) ed ancora inferiore a quello degli Stati Uniti (106,5 per cento).

Nonostante ciò la sterlina negli ultimi 5 anni si è progressivamente rivalutata: di oltre il 13 per cento nei confronti dell’euro e del 15 per cento rispetto al dollaro. La dimostrazione che quando un Paese si garantisce un ritmo di crescita maggiore, i mercati sono disposti a chiudere entrambi gli occhi di fronte a dati finanziari non in linea con gli standard contabili dei Trattati europei. Ed è questo l’elemento che dovrebbe far riflettere un’Europa più che distratta, che si perde – com’era solito dire Boris Johnson, nelle sue istrioniche esternazioni – sul tema dei preservativi e della curvatura delle banane. Piuttosto che pensare ad alimentare il benessere della propria gente.

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