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Brexit, Johnson e solo. Ecco come la Germania sta frantumando l’Europa. Il commento di Polillo

Che cosa deve insegnare l'esito delle elezioni nel Regno Unito all'Unione europea e alla Germania. L'analisi di Gianfranco Polillo

Fino a che punto può arrivare l’ostilità contro un’Unione europea al traino della Germania? La risposta l’abbiamo avuta nelle elezioni inglesi, che hanno portato al successo di Boris Johnson: certamente non il leader più amato dei Conservatori inglesi.

Le lunghe file ai seggi, con una partecipazione al voto del 66,7%, solo due punti in meno di quella delle elezioni del 2017 (68,7%, la più alta dal 1997), hanno reso visibile quanto profondo e sentito fosse quel sentimento. Soprattutto da parte di un ceto medio che ha guardato, con fastidio, alle promesse di Jeremy Corbyn, con il suo programma che sembrava una riedizione delle vecchie proposte anni ’70: nazionalizzazioni, aumento delle tasse e settimana lavorativa a quattro giorni. Che volevano non solo fermare, ma portare indietro le lancette dell’orologio. Come se Tony Blair, il teorico del “new labor”, fosse appartenuto ad un altro pianeta.

Di fronte a questa prospettiva, l’elettorato inglese ha preferito voltare pagina, dando ai Tory una maggioranza schiacciante: 43 per cento dei voti, 86 seggi in più dei laburisti. E lo ha fatto assumendosi il rischio di un’avventura – la Brexit – i cui esiti non sono scontati. Ed il cui prezzo è tutto da quantificare.

Non ha temuto, l’elettorato, la possibile fuga delle grandi aziende dalla City. La possibile fuoriuscita da quel grande mercato, che rappresenta anche per l’economia inglese, la piattaforma continentale dell’Europa. Puntando sul fatto che il capitale resta comunque un’apolide, capace di superare, grazie ai suoi meccanismi la rigidità dei confini. Dovremo aspettare, per capire se il gioco valeva la candela. O se l’asse, con gli Stati Uniti di Donald Trump, consentirà di recuperare, su un terreno diverso, le possibili perdite di benessere.

Intanto la sterlina vola, con un rialzo immediato del 2,5 per cento nei confronti dell’euro. E del 3 per cento nei confronti del dollaro. Segnali incoraggianti non solo per i mercati. Contribuirà, finché dura, ad alimentare quelle stesse aspettative, che hanno spinto gli elettori a voler voltare pagina. A rifiutare le contro proposte di Corbyn, da molti considerati la variante inglese del dirigismo europeo e quindi l’essenza di un cedimento culturale nei confronti di vecchi nemici, tornati ad essere alleati. Ma incapaci di rigenerarsi. Di comprendere, cioè, che il mondo è cambiato e che quindi il tentativo di ritornare ad una vecchia “supremazia”, seppure praticata con altri mezzi, non è più concepibile.

C’è un saggio, che va per la maggiore in Gran Bretagna. Scritto da Brendan Simms, professore di storia delle relazioni internazionali che insegna all’Università di Cambridge: “Europe, the struggle for supremacy: 1453 to the Present”. Una lunga carrellata nel cuore della storia europea, in cui la Germania, dalla caduta di Costantinopoli, capitale dell’Impero romano d’oriente, non riesce a nascondere quella sua vocazione al predominio. Una supremazia che è cosa diversa dall’egemonia. Lo ricordava, addirittura, Guido Carli, quand’era Governatore della Banca d’Italia, alle prese con il condizionamento esercitato dalla Bundesbank sulla politica monetaria degli altri partner europei. In una delle sue “Considerazioni finali”, citando Charles Kindleberger, faceva osservare che l’esercizio della leadership comporta vantaggi ed oneri. In un bilanciamento che doveva essere mantenuto. E di cui invece non c’era traccia.

Gli inglesi, comunità di uomini liberi, hanno sempre mostrato insofferenza per regole che volevano imporre loro modelli di vita non condivisi. Lo dimostrano i rapporti travagliati con l’Unione europea. Il loro esserci e non esserci. Le deroghe ottenute. Le baruffe sul finanziamento degli oneri di compartecipazione. Una corda, sempre più tesa, e che alla fine si è spezzata. Si potrebbe obiettare che anche i francesi hanno, più volte, manifestato lo stesso malessere. Ma in questo caso giocava lo spirito della grandeur. La voglia di primeggiare. Salvo poi doversi ricredere di fronte alla logica brutale degli effettivi rapporti di forza.

Costretti a partecipare a quell’”asse”, che, di fatto, reca i colori di Berlino.

Se questo è il retroterra delle elezioni inglesi, ormai preludio inevitabile della Brexit, il caso non può essere facilmente archiviato, pensando ad una sorta d’incidente della storia. A rischiare, ormai, è l’intera Unione europea, così come l’abbiamo conosciuta. In prospettiva vi può essere una sorta d’effetto domino. Forse, almeno nell’immediato, non vi saranno altre exit. Ma tutto dipenderà dalla lungimiranza delle sue classi dirigenti. Se le regole rimarranno quelle del passato, se la Germania ed i suoi più stretti alleati, non saranno in grado di cogliere in pieno l’avvertimento, una crisi, seppur lenta ed imprevedibile, sarà, probabile, se non inevitabile. E’ quindi tempo di riflessione. In quella tempesta che già si intravede nelle relazioni internazionali.

Lo scontro con l’America di Donald Trump non può essere derubricato, chiamando in causa la presunta prepotenza di un tycoon. Anche in questo caso, vi sono ragioni oggettive che giustificano il contrasto. E non tutte a favore dell’Europa. Anzi al contrario, come mostra il forte attivo della bilancia dei pagamenti dell’Eurozona, che trova nella congiuntura tedesca e nei limiti sociali di quel “modello di sviluppo” il punto di maggior forza. Finora un europeismo di maniera ha volutamente trascurato di indagare su questo lato oscuro. Ma è ancora la Gran Bretagna, come in passato verrebbe da dire, a ricordarci come le “prediche inutili” di tanti economisti, a partire dal Nobel Joseph Stiglitz, vanno prese sul serio. Prima che sia il popolo a dover intervenire.

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