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Ecco come Usa e Cina si fanno la guerra nel Pacifico

Chi c'era e che cosa si è detto allo Shangri-La Dialogue (SLD) di Singapore, “il principale summit sulla Difesa dell’Asia”. Il Punto di Marco Orioles

I media italiani non hanno seguito con la dovuta attenzione – non l’hanno fatto proprio, in verità – un evento che, pur consumatosi dall’altra parte del mondo, non poteva che assumere importanza cruciale alla luce del momento attuale, segnato dallo scontro a tutto campo tra Cina e Stati Uniti.

Stiamo parlando dello Shangri-La Dialogue (SLD) di Singapore: un’iniziativa organizzata dall’International Institute for Strategic Studies (IISS) che, dal 2002, si caratterizza – per citare le parole dello stesso IISS attinte dal suo sito web – per essere “il principale summit sulla Difesa dell’Asia”.

Un “meeting unico”, prosegue la descrizione, “nel quale i ministri” dei Paesi che si affacciano sul Pacifico “discutono delle sfide alla sicurezza più pressanti della regione”. Una kermesse, lo SLD, che si prefigge anche, e forse soprattutto, di “agevolare la comunicazione e i fruttosi contatti tra i più importanti policymaker della Difesa e della Sicurezza della regione”.

Così, dallo scorso 31 maggio fino a ieri sera, allo Shangri-La Hotel di Singapore si sono palesati volti noti e meno noti dell’establishment della Difesa del Pacifico e non solo. Su Twitter, il Ceo di IISS John Chipman annuncia con soddisfazione, a evento quasi concluso, i numeri dell’edizione di quest’anno: 624 delegati, 44 delegazioni governative, 28 ministri, 6313 badge stampati e “centiania di incontri bilaterali”.

Compulsando il programma, ci si rende conto che l’appuntamento era a dir poco imperdibile. Allo SLD 2019 sono stati invitati tutti quelli che contano e non solo: dal primo ministro di Singapore Lee Hsien Loong, che ha aperto i lavori, al neo-insediato ministro della Difesa dell’Australia, Lynda Reynolds, ai suoi colleghi di Francia (che ne ha approfittato per visitare la portaerei Charles de Gaulle ancorata a Singapore) e Gran Bretagna, fino all’Alto Rappresentante dell’Ue Federica Mogherini.

 

A Singapore, tuttavia, non c’erano solo politici. A deliziare i cronisti di affari militari ci hanno pensato, tra gli altri, tre papaveri degli eserciti di Stati Uniti, Giappone e Australia: l’ammiraglio Davidson, capo del Comando Indo-Pacifico Usa; il generale Yamakazi, Chief of Staff delle forze nipponiche; e il generale Campbell, capo dell’Australian Defense Force.

Ci ha pensato l’analista di “The Diplomat” Ankit Panda, a ricordare su Twitter chi invece non ha potuto presentarsi a Singapore: è l’ex diplomatico canadese Michael Kovrig, arrestato a dicembre in Cina, e tuttora detenuto insieme ad un altro concittadino, in quella che tutti considerano una ritorsione di Pechino per l’arresto a Vancouver del CFO di Huawei, Meng Wanzhou.

 

L’assenza di Kovrig non sarà magari stata notata da tutti, ma è valsa a evidenziare quale fosse il tema che più di altri ha occupato il centro della scena in questa edizione dello SLD: i rapporti sempre più deteriorati tra Stati Uniti e Cina, ossia tra le due potenze che si contendono l’egemonia anche nell’area di riferimento dello SLD, il Pacifico

E’ un concetto che l’emittente cinese CGTN, divisione internazionale della tv di Stato CCTV, sottolinea con un tweet lanciato poco prima che si aprissero i lavori all’hotel Shangri-La:

Il motivo di tanta enfasi è presto detto. Impegnati in una guerra commerciale all’ultimo dazio, Cina e Stati Uniti sono ai ferri corti, e non da oggi, anche da un punto di vista strategico e militare. E il Pacifico è l’immensa area dove – ricorda la CNN in un servizio che elenca i punti di frizione e gli episodi più preoccupanti – la competizione sino-americana è più accesa.

Ecco perché gli eventi più attesi di quest’anno a Singapore non potevano che essere i discorsi in seduta plenaria dei ministri della Difesa dei duellanti, Patrick Shanahan e Wei Fenghe.

C’era grande interesse, in America e non solo, per la partecipazione di Shanahan a SLD 2019. Fresco di nomina da parte di Donald Trump ma ancora in attesa di conferma da parte del Senato, il capo del Pentagono era chiamato a superare una specie di test, un battesimo del fuoco nell’ambito di una grande kermesse internazionale. La presenza di Wei non poteva che conferire ulteriore importanza alla missione oltreoceano di un leader che, non appena assunto l’incarico a Washington, ha elencato le sua priorità con uno slogan che è tutto un programma: “Cina, Cina, Cina”.

C’era poi un altro fattore che ha conferito notevole importanza alla presenza di Shanahan a Singapore. In concomitanza con il discorso che il ministro ha tenuto allo SLD, il Dipartimento della Difesa ha diffuso un documento che illustra la strategia “Indo-Pacifica” degli Stati Uniti:

Si intitola “Indo-Pacific Strategy Report. Preparedness, Partnerships, and Promoting a Networked Region” ed è l’applicazione su una delle regioni più scottanti del pianeta della nuova dottrina strategica degli Usa che, nell’era di Trump, tornano a concentrarsi sulla competizione tra grandi potenze dopo quasi due decenni di distrazione con le questioni del contro-terrorismo. Il discorso di Shanahan a Singapore rappresenta, dunque, la prima occasione in cui gli Stati Uniti hanno illustrato al mondo cosa intendano fare nel Pacifico.

È più che comprensibile, insomma, che gli occhi dei partecipanti alla kermesse di Singapore, reporter inclusi, fossero concentrati sugli spostamenti, le mosse di Shanahan e della sua controparte Wei. Che,  prima di pronunciare le loro concioni alla platea dello SLD, in programma rispettivamente alla mattina del sabato e della domenica, hanno deciso di ritagliarsi un momento per un breve confronto faccia a faccia.

 

Pur descritto come “costruttivo e produttivo”, l’incontro di venerdì finisce sotto i riflettori dei media per l’aggettivo – “eccessiva” – scelto da Shanahan per descrivere la militarizzazione cinese nel Mar Cinese Meridionale. Un mare che, come ben sanno i lettori di Policy Maker, è uno dei due teatri (l’altro è il braccio di mare che separa Taiwan dalla Cina) in cui le marine di Usa e Cina sono impegnate in un braccio di ferro che non lascia presagire nulla di buono.

E’ tutto da segnalare, a tal proposito, il commento del “Global Times”, quotidiano cinese in lingua inglese che esprime la posizione del regime. Per il giornale, l’accusa di Shanahan è “infondata”. La situazione nel Mar Cinese Meridionale starebbe infatti migliorando così come le “relazioni tra la Cina e paesi come le Filippine” che contestano le rivendicazioni territoriali di Pechino. Quindi, è la conclusione del Global Times, è semmai “l’istigazione degli Usa che sta causando incertezza nella regione”.

Le dichiarazioni del venerdì di Shanahan sono solo un assaggio di quel che il titolare della Difesa Usa dettaglierà nel lungo discorso pronunciato il giorno dopo (lo si può riascoltare qui, mentre qui si trova una trascrizione e questi sono i resoconti di Defense One, Cnn, South China Morning Post e Straits Times). Un discorso che riempie la sala, segnata però da una vistosa assenza: quella di Wei, sulla quale l’ex ministro della Difesa di Taiwan illustra una sua personalissima teoria riportata via Twitter dal corrispondente dell’edizione in mandarino di Voice of America:

Il senso dell’orazione di Shanahan si può cogliere sin dalle prime battute. “Sono qui”, sottolinea il Segretario, “per affermare l’impegno duraturo degli Stati Uniti per la regione dell’Indo-Pacifico e per i valori che la mantengono sicura, prospera, libera e aperta”. Una regione che, rimarca Shanahan, “è il nostro teatro prioritario” e dove la presenza degli Usa (e delle loro forze armate) è semplicemente “naturale”. Affermazioni che rimbalzano quasi in tempo reale sugli account Twitter del capo del Pentagono, del Dipartimento della Difesa e dell’IISS:

Ai colleghi dell’Asia-Pacifico seduti ad ascoltarlo, Shanahan ricorda che la “nostra geografia condivisa ha spinto l’integrazione e il collegamento tra le nostre economie: il commercio bilaterale annuale dell’America qui vale 2,3 trilioni di dollari e gli investimenti esteri diretti degli Usa valgono 1,3 trilioni di dollari più di quelli di Cina, Giappone e Corea del Sud messi insieme”.

Riaffermato il concetto, il capo del Pentagono passa quindi al punto più delicato. “Nessuna nazione”, sottolinea con misurata enfasi, “può o dovrebbe dominare l’Indo-Pacifico”.

Non nomina la Cina, Shanahan, ma tutti sanno a cosa si riferisca quando sottolinea che “la più grande minaccia di lungo termine agli interessi vitali degli Stati in questa regione viene dagli attori che cercano di minare, anziché preservare, l’ordine internazionale basato sulle regole”. Attori che, prosegue, “destabilizzano la regione” cercando di “sfruttare economicamente e diplomaticamente gli altri” e di “coartarli militarmente”. E che, in particolare, indulgono in politiche economiche “predatorie” come la tendenza a intrappolare i propri partner in trappole del “debito”.

Ma è sulle questioni più strettamente militari che la retorica anti-cinese di Shanahan si fa più acuminata. Non è certo affidata al caso la scelta del termine che definisce negativamente, agli occhi degli Usa, la condotta di Pechino, rea di aver approntato una “cassetta degli attrezzi della coercizione”.

Una cassetta nella quale si ritrovano tutti i comportamenti denunciati dall’America: si va dalla costruzione di isolotti artificiali nel Mar Cinese Meridionale trasformate in altrettanti avamposti militari, al dislocamento di sistemi d’arma avanzati in un’area oggetto di disputa con i Paesi vicini.Questo, è la conclusione di Shanahan, è un “comportamento che erode la sovranità delle altre nazioni e semina sfiducia nei confronti delle intenzioni della Cina”. Comportamento che, dunque,  “deve finire”.

In una simile situazione, gli Usa non hanno altra scelta se non quella di difendere con tutti gli strumenti a loro disposizione – forze armate incluse .- l’ordine internazionale in una regione, l’Indo-Pacifico, che deve rimanere aperta e libera. “Non ignoreremo il comportamento cinese”, spiega Shanahan ai reporter dopo aver terminato il suo discorso, in un passaggio che viene rilanciato su Twitter dal corrispondente del “Wall Street Journal”:

Come detto, alla visione e alle accuse di Shanahan risponderà il giorno dopo il ministro Wei, presentatosi all’appuntamento con l’uniforme dell’Esercito di Liberazione Popolare (per un resoconto, rimandiamo alle cronache dell’Associated Press, della Cnn, di Voice of America e di Straits Times).

Il discorso di Wei comincia con una confutazione. Se gli Usa, attraverso Shanahan, insinuano il sospetto che la Cina nutra disegni di dominio nel Pacifico, al ministro non resta che ribadire la posizione storica di Pechino: incamminata in un “percorso di sviluppo pacifico”, la Cina “non cercherà mai l’egemonia né minaccerà altri”.

Finite le rassicurazioni, Wei decide di passare all’attacco. L’Esercito di Liberazione Popolare (PLA) da lui guidato, sottolinea, “non rinuncerà ad un singolo pollice del sacro territorio del Paese”. Il PLA “non ha intenzione di causare problemi a nessuno ma non ha paura di affrontare i problemi”. Se pertanto qualcuno osasse “attraversare la linea rossa, il PLA agirà risolutamente sconfiggendo tutti i nemici”.

A quali linee rosse Wei si riferisca lo precisa nei passaggi successivi. Citando niente meno che Abramo Lincoln e la guerra civile americana, il ministro precisa: “Nessun paese nel mondo tollererebbe la secessione”. L’argomento, come si capisce, è Taiwan.

“Gli Usa sono indivisibili”, afferma Wei, “e così è la Cina”. Che “deve essere, e sarà, riunificata”. Di qui il monito agli Usa: “Se qualcuno osasse dividere Taiwan dalla Cina, l’esercito cinese non avrebbe altra scelta se non combattere a tutti i costi per l’unità nazionale”

Nessuno si illuda, è il senso dell’intervento: “noi ci sforzeremo con la massima sincerità e il più grande impegno per la prospettiva di una unificazione pacifica, ma non promettiamo di rinunciare all’uso della forza”.

È dunque un messaggio, quello di Wei, chiaramente rivolto agli Usa, rei – tra le altre cose – di aver varato una legge, il Taiwan Relations Act, che inquadra il sostegno che l’America garantisce a Taipei di fronte alla minaccia di invasione cinese. “Come possono gli Usa”, tuona a tal proposito Wei, “emanare una legge per interferire negli affari interni cinesi? C’è un senso in tutto questo?”. La conclusione del ministro su questo punto è lapidaria: “l’intervento straniero nella questione di Taiwan è condannata al fallimento”.

Non è meno fermo Wei quando passa all’altro fronte in cui la Cina è ai ferri corti con gli Usa: il Mar Cinese Meridionale. Dove Pechino, precisa il ministro liquidando l’accusa americana, ha costruito “limitate strutture di difesa” che hanno l’unico scopo di migliorare le infrastrutture e i servizi per la popolazione residente.

Spiegazione poco credibile, quella di Wei, che va tuttavia dritto al punto: “è il diritto legittimo di uno stato sovrano realizzare delle costruzioni sul proprio territorio”. Costruzioni che, sottolinea il ministro senza badare troppo alla coerenza, hanno puramente uno scopo difensivo e per la cui genesi si deve guardare semmai alla presenza di “minacce” esterne.“Di fronte alle navi da guerra e agli aerei militari” delle potenze straniere che pattugliano quel mare, si chiede infatti Wei, “come potremmo non schierare strutture di difesa?”.

Sono argomenti controversi ma acuminati, quelli di Wei, che gli fanno guadagnare lanci colmi di significato nei media cinesi:

 

Fatte queste precisazioni, Wei ormai è senza freni. E parte, lancia in resta:“Alcuni paesi da fuori regione vengono nel Mar Cinese Meridionale per flettere i muscoli in nome della libertà di navigazione”. Riferimento esplicito, questo, alle operazione FON (freedom of navigation) condotte  dagli Usa in quel mare per ribadirne il carattere aperto e negare le rivendicazioni cinesi.

Wei, tuttavia, vuole essere chiaro quanto alle possibili conseguenze del confronto in corso con l’America nel Mar Cinese Meridionale. “La Cina non attaccherà a meno che non sia attaccata”, è la sua rassicurazione. “Le due parti capiscono”, infatti, “che un conflitto, o una guerra tra loro due, porterebbe disastri ad entrambi i Paesi e al mondo”.

Ecco perché la porta della cooperazione rimane aperta, a patto naturalmente che lo vogliano gli Usa. “Bisogna essere in due a cooperare”, è la conclusione di Wei, “ma ne basta solo uno per cominciare un combattimento. (…) Noi speriamo che (gli Usa) lavoreranno con noi verso lo stesso obiettivo, seguire i principi del non conflitto, del non confronto, del mutuo rispetto e della cooperazione win-win, indirizzando la relazione Usa-Cina nella giusta direzione”.

 

(estratto di un articolo pubblicato su policymakermag.it, qui la versione integrale)

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