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Kosovo

Ecco come può reggere la tregua fra Israele e Hamas. L’analisi di Jean

Per consolidare la tregua il nuovo governo israeliano deve puntare su vantaggi economici per gli arabi israeliani e per i Palestinesi della West Bank. L'analisi del generale Carlo Jean

 

A parte le polemiche sulla responsabilità dell’inizio delle violenze, l’attenzione sul recente conflitto fra israeliani e palestinesi è stata rivolta soprattutto ai lanci di razzi da parte di Hamas e ai bombardamenti israeliani nella Striscia di Gaza. Minore attenzione è stata dedicata alla rivolta in Israele dei suoi cittadini arabi e al fatto che i palestinesi della Cisgiordania vi abbiano partecipato solo marginalmente, malgrado gli appelli di Hamas per una nuova “Intifada”. Anzi, la polizia di al-Fatah ha collaborato con quella israeliana per contenere le violenze.

Sono fatti che dimostrano la complessità delle interconnessioni esistenti fra le dinamiche politiche interne sia israeliane che palestinesi. Molte sono state le interferenze di attori esterni – regionali e globali – che hanno mirato ad estendere la loro influenza nella regione, sfruttando le opportunità offerte loro dalla questione palestinese. Essa è un “gioco a somma zero”, quindi irrisolvibile con negoziati. Non può neppure essere risolta con il ricorso alla forza militare né con concessioni o sanzioni economiche. Non può esserlo neppure con le attuali leadership. La destra israeliana di Netanyahu è molto più radicale di quella di Begin o di Sharon. Non può proporsi la distruzione di Hamas – possibile solo con la rioccupazione di Gaza – poiché essa comporterebbe inaccettabili perdite e un lungo controllo del territorio.

Nel campo palestinese, Al-Fatah è completamente screditato. Hamas non intende rinunciare al suo principio costituente della distruzione di Israele, ma non dispone né mai disporrà delle capacità militari per farla.

Israele è ormai una superpotenza in Medio Oriente. Ha un Pil procapite superiore di 14 volte a quello dell’Egitto; 8 volte quello dell’Iran; il doppio di quello dell’Arabia Saudita. Dispone di riserve di 180 mld di $. Spende per la ricerca il 5% del suo Pil. Dispone di una forza militare superiore a quella di ogni altro paese, o possibile coalizione, nella regione. La sua potenza nelle nuove tecnologie fa sì che grandi potenze cerchino la sua amicizia. Con gli “Accordi di Abramo” ha oggi relazioni normali con vari paesi arabi, che hanno abbandonato la causa palestinese. La sua maggiore vulnerabilità consiste nei rapporti con gli Usa, guastatisi con Joe Biden e nel fatto che non ne potrà avere più un sostegno tanto completo come quello di Trump. È probabile che la crisi del governo Netanyahu e la sua possibile sostituzione in settimana con uno strano governo di otto partiti – dai nazionalisti a un partito arabo – sia dovuto a pressioni Usa o dalla necessità di migliorare i rapporti con gli Usa, in particolare con il Partito Democratico, fortemente critico delle discriminazioni compiute da Israele nei confronti dei palestinesi e dei bombardamenti a Gaza.

Prima dello scoppio dell’ultimo conflitto, il termine dominante per convivere con la questione palestinese e affrontare i numerosi problemi del Medio Oriente era “de-escalation”. Fra gli Usa e l’Iran era ripreso il dialogo per il ripristino del trattato nucleare; Arabia Saudita ed Emirati avevano iniziato un dialogo con Teheran, per definire uno status quo nel Golfo; Turchia ed Egitto avevano ripreso negoziati riguardanti soprattutto la Libia e il Bacino Levantino; con gli Accordi di Abramo vari Stati arabi sunniti avevano riconosciuto Israele; i partiti nazionalisti israeliani avevano aperto trattative con i partiti arabo-israeliani per la costituzione di un governo di coalizione; gli Usa, abbandonando con Biden le posizioni filo-israeliane radicali del presidente Trump, avevano rilegittimato il loro tradizionale ruolo di mediatori fra Israele e i Palestinesi. Lo scoppio del nuovo conflitto ha rimesso in gioco l’intero processo di de-escalation. Malgrado la mediazione dell’Egitto e del Qatar è difficile prevedere se e come possa essere riavviato un processo di pace, trasformando l’attuale tregua in qualcosa di solido.

Come accennato, il conflitto israelo-palestinese ha caratteristiche peculiari che impediscono la vittoria di una parte e, quindi, la conclusione di una pace. Né gli israeliani né i palestinesi dispongono di obiettivi realistici. La soluzione dei “due Stati”, individuata a Oslo nel 1993, è definitivamente scomparsa, se non nelle fantasie di qualche idealista o nel linguaggio diplomatico di chi non sa “quali pesci pigliare” e si rifugia nel “politicamente corretto”. Quella alternativa di un unico Stato federale, con ampie autonomie delle varie componenti, rimane fumosa. Difficilissimo è che i palestinesi si accontentino di un’autonomia solo amministrativa. Impossibile è che gli israeliani rinuncino al principio etnico-religioso, della Palestina come Stato-nazione degli ebrei.

Dopo le minacce scatenate dal loro ritiro da Gaza, è ben difficile che si ritirino dalla West Bank. Quanto sta avvenendo in Bosnia ed Erzegovina, dimostra le difficoltà d’imporre dall’alto e dall’esterno una struttura federale. L’unico approccio percorribile per consolidare la tregua mi sembra l’accettazione da parte del nuovo governo israeliano di accantonare le dispute religiose e sugli assetti istituzionali, puntando su vantaggi economici per gli arabi israeliani e per i Palestinesi della West Bank. È quanto sostanzialmente richiede il Partito arabo-israeliano Ra’am per il suo appoggio esterno: nuovi ospedali, eguali diritti per i lavoratori, maggiori fondi ai comuni e rafforzamento delle polizie locali.

 

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