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Giorgetti

Draghi si dimette? Panico nei partiti…

Che cosa si bisbiglia nei corridoi dei Palazzi romani su Draghi. I Graffi di Damato

 

Non dirò con la solita ironia -come di certi annunci falsi di morte – che è quanto meno “prematura” la voce raccolta dal Dubbio sulle dimissioni che il presidente del Consiglio Mario Draghi avrebbe intenzione di presentare al presidente della Repubblica alla fine dell’anno considerando esaurito il suo compito con l’approvazione del bilancio. Che altri con lo stesso governo o con uno nuovo potranno gestire disponendo anche di un piano della ripresa già predisposto nelle scadenze concordate con quella generosa finanziatrice che si è rivelata l’Unione Europea, dopo i disastri della pandemia.

Meno prematuro forse è “il panico” annunciato a seguito della voce della crisi coltivata, immaginata, minacciata e quant’altro dal pur solito imperturbabile Draghi. I partiti, si sa, vivono ormai tutti coi nervi a fior di pelle.

In via di scadenza ma non ancora scaduto, e quindi ben seduto alla sua scrivania quirinalista, per quanto tra la scatole in cui lui stesso magari avrà cominciato a sistemare le cose da portar via, Mattarella potrebbe pur impazientemente improvvisare un giro di consultazioni, verificare l’impraticabilità di altre formule, dopo tutte quelle sperimentate dopo le elezioni del 2018, e sostituire il presidente del Consiglio dimissionario col fidato e fedele Daniele Franco, lasciandogli anche il Ministero dell’Economia.

Così, fra l’altro, il capo dello Stato potrebbe anche consentire a Draghi di partecipare più liberamente alla cosiddetta corsa al Quirinale, di durata spesso imprevedibile, esonerando i costituzionalisti dalle dispute in cui sono già miseramente sprofondati sulle mani nelle quali un Draghi ancora in carica a Palazzo Chigi dovrebbe dimettersi, fra un capo dello Stato in uscita e se stesso in entrata, e cose di varia altra cerimonialità: di quelle più da commedia che altro, in mancanza, per fortuna, di una salma da tragedia.

Può darsi, però, che Mattarella si lasci prendere non dico dalla paura ma dallo scrupolo di insediare prima di andarsene un altro governo ancora. E, piuttosto che gestire la crisi ritrovatasi improvvisamente fra i piedi e li scatoloni del trasloco, anticipi con le dimissioni di qualche settimana la fine del proprio mandato. In quel caso, a meno di uno scatto di velocità della presidente del Senato in veste di capo supplente dello Stato, e quindi in grado di chiudere la crisi seduta stante ordinando a Draghi di restare al suo posto, la scena passerebbe tutta e sola ai cosiddetti “grandi elettori”. Così avvenne nel 1992, quando Francesco Cossiga corse via dal Quirinale, o poche settimane dopo quando Oscar Luigi Scalfaro, eletto al suo posto, sbrogliò la matassa della crisi a suo modo, eliminando il maggiore concorrente a Palazzo Chigi, che era Bettino Craxi, con una mezza certificazione di presunta impraticabilità affidata ad un capo della Procura ammesso inusualmente, e a posta, alla pratica delle consultazioni.

Qui mi fermo e mi arrendo con l’umiltà di un anziano cronista politico incapace alla sua età, e pur con tutto il rispetto che meritano Mattarella e Draghi, di farne protagonisti, attori, comparse e chissà cos’altro di un giallo: magari un Draghicidio come prosecuzione e vendetta del Conticidio ancora fresco di stampa, si fa per dire. E a dispetto di quel titolone di Libero su “Draghi o Berlusconi” sul Colle, ma il primo col doppio di gradimento dell’altro.

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