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Giuseppe Conte

Chi grida al conticidio progetta un draghicidio

I Graffi di Damato

 

Credo che non vi siano precedenti nella storia della letteratura gialla di un libro come quello di Marco Travaglio pubblicato nello scorso mese di maggio col titolo di “Conticidio”, inteso come l’assassinio politico di Giuseppe Conte. Che sarebbe stato politicamente assassinato da misteriosi congiurati — tranne uno, naturalmente Matteo Renzi — prima come capo del suo secondo governo e poi anche come aspirante al terzo e forse anche ultimo di questa anomala legislatura prodotta dalle elezioni del 2018 con la conquista della maggioranza relativa da parte del MoVimento 5 Stelle. Sembrò addirittura una paradossale riedizione della Dc della cosiddetta prima Repubblica, sorpassata una sola volta, nel 1984, dal Pci dell’appena compianto Enrico Berlinguer. Ma fu un sorpasso più simbolico che reale, avvenuto nell’elezione della delegazione italiana al Parlamento Europeo. Allora comunisti e Pdup insieme superarono i democristiani di 130.661 voti: 11 milioni 714.428 ai primi e 11 milioni 583.761 ai secondi, attestatisi rispettivamente sul 33,33 per cento e sul 32,96. I socialisti, che pure avevano il loro segretario Bettino Craxi in grandissima forma a Palazzo Chigi, dovettero accontentarsi di 3 milioni 940.445 voti, pari all’11,21 per cento.

Una volta tanto sportivo e spiritoso, non solo ferocemente sarcastico, lo stesso Travaglio ha recentemente ammesso, collegato a un salotto televisivo dov’è di casa, di avere scritto un giallo “superato”, scaduto come uno yogurt, cui di solito Romano Prodi paragona i prodotti politici che non lo convincono. Scaduto, dicevo, essendo nel frattempo maturato un terzo delitto Conte: questa volta commissionato, anzi compiuto direttamente da Beppe Grillo licenziando il professore e avvocato in diretta internettiana da rifondatore e aspirante leader politico del MoVimento 5 Stelle per avere dimostrato col suo “seicentesco”, e quindi barocco, progetto di statuto di non avere quel certo “quid” che una volta solo Silvio Berlusconi si permetteva di assegnare e poi revocare al delfino di turno.

Avrebbero dovuto seguire, in verità, le scuse di Grillo, puntualmente mancate, agli italiani  per avere loro rifilato lo stesso Conte alla guida di due governi e averne apparentemente permesso o tollerato per un pò il tentativo di guidarne un terzo, come già accennato. Arrivò invece il turno di Mario Draghi, per cui si spese personalmente proprio Grillo, a questo punto non so se da congiurato più di supporto o principale. Il comico si precipitò a Roma,  in concorrenza peraltro con Berlusconi,  per sostenere l’incarico di presidente del Consiglio affidato dal capo dello Stato all’ex presidente della Banca Centrale Europea, ex governatore della Banca d’Italia e via curricolando.

Al licenziamento elettronico di Conte come rifondatore e leader di un MoVimento 5 Stelle proiettato sull’Italia addirittura del 2050, preclusa anagraficamente a un bel po’ di connazionali, è seguita tuttavia una mezza riassunzione, chiamiamola così, col ripiegamento di Grillo su una commissione di sette saggi. Cui la generalità dei giornali ha assegnato una quindicina di giorni per cercare di ricucire lo strappo, cioè elaborare uno statuto che garantisca sia il fondatore sia il rifondatore, in una diarchia esclusa a parole da Conte ma di fatto accettata nel momento in cui egli si è fermato sulla strada alternativa della composizione di un nuovo partito, fatto inizialmente più di parlamentari ex grillini che di elettori.

Questa fermata assomiglia ad un’altra, sempre di Conte. Penso, in particolare, ai giorni in cui, incalzato dall’offensiva del già citato Renzi, l’allora presidente del Consiglio si impegnò personalmente, assistito dal portavoce Rocco Casalino, a ridisegnare la maggioranza del suo  secondo governo o a predisporre quella di un terzo. Ricordate? Erano i giorni in cui scendevano e salivano non solo metaforicamente dalle scale di Palazzo Chigi senatori e senatrici delle opposizioni, e dintorni, per liberare il professore dalle catene o dal cappio di Renzi. Persino il paziente presidente della Repubblica, che già gli aveva permesso di congelare una crisi che nei fatti si trascinava ormai da mesi, diede segnali di insofferenza. E la storia precipitò nella certificazione della disponibilità di Draghi, sino a poco prima negata da Conte in base ad elementi raccolti personalmente, a guidare un governo dalla struttura e dalla maggioranza particolari per la triplice emergenza in cui si trovava il Paese: sanitaria, economica e sociale.

In questo traffico un po’ convulso di Conte fra scenari diversi, tra rifondazione e fondazione di partiti, mi sono personalmente perso anche il conto dei consiglieri quanto meno attribuiti al professore dai giornali: da Clemente Mastella, propostosi addirittura come medico in una intervista, a Goffredo Bettini, in qualche modo prestato dal Pd di Nicola Zingaretti e del successore Enrico Letta; da Pier Luigi Bersani, sempre prodigo di metafore oltre che di suggerimenti, a Massimo D’Alema. Tutti nomi e uomini che potrebbero giustamente aspirare ad almeno una citazione di Travaglio, consigliere anche lui del professore secondo qualche retroscenista, nella riscrittura del “Conticidio” promessaci dall’autore. Che penso tuttavia — leggendone le analisi e i racconti sul suo Fatto Quotidiano — più interessato a scrivere “Il Draghicidio”.  Gli scongiuri del presidente del Consiglio, ma anche di Mattarella, col fiato sospeso al Quirinale, sarebbero a questo punto dovuti.

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