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Calderoli

Che cosa manca nel ddl Calderoli sull’autonomia

Il decreto Calderoli sull'autonomia non specifica tante cose, a cominciare dalle modalità di revisione delle risorse da attribuire a ciascuna regione differenziata. L'analisi dell'economista esperto di finanza pubblica Alberto Zanardi per Lavoce.

L’attuazione dell’autonomia differenziata solleva una serie di questioni di grandissimo rilievo per la gestione delle politiche pubbliche, per la loro sostenibilità finanziaria e, in definitiva, per la tenuta del paese.

Quale sia il problema dei problemi è chiaro: l’eccezionale ampiezza delle funzioni pubbliche, oggi esercitate dallo stato, che la Costituzione (articolo 116, comma 3) permette a singole regioni di acquisire, per gestirle in proprio; e, pertanto come si possa evitare, senza passare attraverso la gravosa procedura di revisione costituzionale, lo scenario drammatico di una frammentazione “a macchia di leopardo” dell’intervento pubblico in una serie di ambiti fondamentali: dalla scuola alle grandi reti di trasporto.

Concentriamoci però sul profilo, apparentemente più tecnico, del finanziamento delle funzioni regionali aggiuntive. Il disegno di legge Calderoli, che dovrebbe fissare i principi per l’attuazione dell’autonomia differenziata, lascia la questione irrisolta: di fatto, affida la determinazione delle risorse fiscali per l’esercizio delle funzioni acquisite dalle regioni differenziate, e la loro revisione nel tempo, ad accordi che il governo e la singola regione interessata dovranno raggiungere dopo l’approvazione della specifica intesa. Al contrario, il disegno di legge dovrebbe stabilire uno schema di riferimento unitario e organico per gli elementi costitutivi fondamentali del meccanismo di finanziamento delle funzioni aggiuntive, che potranno poi essere tarati sulle singole regioni differenziate, a seconda della portata finanziaria delle funzioni decentrate.

Cosa manca nel Ddl Calderoli

Cosa manca dunque nel disegno di legge Calderoli? Manca, innanzitutto, una inequivoca regolazione delle modalità di revisione nel tempo delle risorse da attribuire a ciascuna regione differenziata dopo il primo anno di applicazione. Andrebbe specificato a chiare lettere che l’ammontare delle risorse riconosciute per le funzioni devolute – che interessano diritti civili e sociali (per le quali saranno fissati livelli essenziali delle prestazioni-Lep) – dovrà essere rideterminato periodicamente in relazione alla revisione dei Lep medesimi e agli interventi di correzione dei conti pubblici da calcolare per tutti i territori regionali, sia quelli che restano sotto la competenza statale sia quelli che passano sotto la competenza regionale. Non dovrebbe essere ammesso per nessuna regione differenziata un surplus positivo tra risorse e fabbisogni di spesa Lep. E questo per evitare che l’autonomia differenziata finisca per trasformarsi in una riedizione delle regioni a statuto speciale, in cui le risorse attribuite non corrispondono ai fabbisogni.

Parallelamente, è anche necessario regolare le modalità di determinazione delle risorse finanziarie e della loro evoluzione nel tempo per le funzioni diverse da quelle in cui rilevano i Lep (il cui trasferimento, secondo il disegno di legge Calderoli, potrebbe seguire un binario accelerato rispetto alle funzioni Lep). Tali risorse potrebbero essere determinate inizialmente sulla base della spesa storica erogata nella media degli ultimi anni dallo stato (anche in assenza di un aggancio ai Lep) nei territori delle regioni differenziate. E potrebbero essere successivamente riviste sulla base, per esempio, dell’evoluzione della spesa programmata per tali funzioni dallo stato nei territori che rimangono sotto la sua competenza.

Andrebbero poi specificamente previste le modalità di monitoraggio e verifica da parte dello stato dell’effettiva erogazione nelle regioni differenziate delle prestazioni previste dai Lep (verifiche che non “possono”, come recita il disegno di legge, ma “devono” essere attivate dal governo, in assenza di vincoli di destinazione sulle risorse attribuite).

Il disegno di legge dovrebbe poi identificare le sanzioni che andrebbero attivate nel caso di regioni differenziate inadempienti rispetto ai doveri di fornitura delle prestazioni tutelate da Lep (in termini di obblighi di incremento della tassazione regionale o di limitazioni dell’autonomia di gestione, per gli ambiti dove il monitoraggio ha evidenziato criticità).

La questione delle compartecipazioni

In termini ancor più generali, è difficile pensare di costruire un sistema ordinato di finanziamento delle funzioni aggiuntive per alcune regioni (quelle differenziate) se prima, o quantomeno parallelamente, non viene data attuazione al meccanismo di finanziamento e perequazione delle funzioni già oggi attribuite a tutte le regioni. Quel meccanismo, fatto di tributi regionali propri, compartecipazioni su tributi erariali e fondo perequativo basato su fabbisogni standard e capacità fiscali, è ancora lettera morta dalla legge sul federalismo fiscale del 2009. Non che il finanziamento delle funzioni aggiuntive attribuite alle regioni differenziate debba basarsi sugli stessi elementi costitutivi di quello delle funzioni già assegnate a tutte: interessando soltanto specifiche regioni su specifiche funzioni, non potrà ricorrere a tributi propri regionali ma soltanto, necessariamente, a trasferimenti o compartecipazioni su tributi erariali territorializzati. Tuttavia, le due gambe del finanziamento regionale (quello delle funzioni esercitate da tutte le regioni e quello delle funzioni aggiuntive delle sole regioni differenziate) devono collocarsi all’interno di un sistema integrato (come peraltro previsto dalla Costituzione quando stabilisce che l’autonomia differenziata debba realizzarsi “nel rispetto dei principi di cui all’articolo 119”, cioè del federalismo fiscale). E questo per almeno due ragioni. La prima è che, in presenza di una devoluzione massiccia di nuove funzioni aggiuntive, potrebbe concretizzarsi un problema di capienza delle compartecipazioni regionali sui tributi statali, che sono già ampiamente impiegate per il finanziamento delle funzioni già oggi regionali (ad esempio, l’Iva è già compartecipata al 70,14 per cento per la sanità regionale).

La seconda ragione riguarda un aspetto equitativo: se non si attua prima il federalismo fiscale per tutte le regioni, e se quindi non si costruisce un meccanismo di perequazione dei tributi regionali (non impiegati nella sanità), alcuni territori (quelli ricchi) avranno risorse fiscali proprie non giustificate, che potranno usare per integrare il finanziamento standard delle funzioni aggiuntive (per coprire inefficienze o garantire prestazioni in più senza affidarsi allo sforzo fiscale); mentre le regioni più povere, con tributi propri non perequati, avranno maggiori difficoltà ad accedere alle funzioni aggiuntive.

Un punto di caduta di tutta l’attuazione dell’autonomia differenziata sarà comunque un cambiamento profondo nella struttura delle entrate nei bilanci regionali: se le regioni differenziate dovessero assumere funzioni aggiuntive rilevanti dal punto di vista delle risorse coinvolte (è ancora il caso della scuola), il loro finanziamento, che deve realizzarsi necessariamente mediante compartecipazioni, spingerebbe sempre più i bilanci regionali verso uno stato di “finanza derivata”, dove i tributi propri avrebbero un peso sempre più marginale. Proprio il contrario del federalismo fiscale, che vede nell’autonomia tributaria un elemento fondamentale di responsabilizzazione dei governi decentrati. Una ragione, anche questa, per limitare la portata dell’autonomia differenziata a quel carattere di variazione al margine che la Costituzione intende assegnarle

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