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Kurdistan

Davos, la Brexit e le svolte dei nuovi Tory

L’ordine di Johnson ai suoi ministri – di stare lontani dal summit a Davos – è stato letto come un risultato del cambiamento di pelle e di anima del Partito Conservatore. Il post di Pietro Romano

 

Amici e nemici di Boris Johnson hanno avuto facile gioco nel definirla “la svolta di Davos”. L’ordine del premier britannico ai suoi ministri – di stare lontani dall’annuale summit dell’élite globalizzata mondiale – è stato letto come un risultato del cambiamento di pelle e di anima del Partito Conservatore. Più popolare, ormai, per elettorato e anche per classe dirigente che elitario.

In realtà, se è vero che Johnson è l’artefice più evidente di questa svolta, la sua spinta sull’acceleratore identitario ha rappresentato solo la goccia (magari il goccione) che ha fatto traboccare il vaso. La svolta, insomma, in parte era precedente, in parte era pronta. E porta allo spirito di Downton Abbey.

Si è scritto che l’attuale Partito Conservatore, nella sua versione populista, abbia virato verso un approdo da destra continentale. E di conseguenza non abbia più punto a che fare con questo luogo emblematico. Tutt’altro. Chi ha seguito, se non l’intera serie televisiva, anche solo il recente film, e magari ha letto i libri dei Fellowes (zio e nipote) che hanno realizzato e/o descritto questa sorta di simbolo del Regno Unito-che-fu, ha scoperto come nella visione del proprio Paese non si capisca chi nel secolo scorso fosse più conservatore e nazionalista tra le classi agiate e le classi subalterne, per usare una terminologia d’antan ma efficace. Non solo. La sofisticata concretezza britannica – più o meno pervasa di snobismo primaziale – è trasversale alle classi sociali. Il popolo non l’aveva persa, sono semmai le élite (Londra parzialmente esclusa) a essersene riappropriate dopo aver cambiato idea nei decenni scorsi, più che altro per interesse concreto.

La City è liberal-laburista con periodiche venature liberaldemocratiche o “verdi” – da decenni. Tony Blair ne rimane l’icona vivente. La signora Thatcher, nella sua versione pro finanza del secondo mandato, è ormai un ricordo sbiadito. Non è un caso che il successo pronosticato ai Liberaldemocratici da un’altra élite, quella mediatica, non solo non si sia registrato ma sembra preludere addirittura a una spaccatura in grado di condurre all’estinzione della storica “terza forza”.

Quanto a Davos, anche Johnson ci andava – da giornalista e da sindaco di Londra – ma nel primo caso, come per molti nostri colleghi, la meta erano i sontuosi ricevimenti della località alpina, nel secondo i tentativi di dirottare fondi sulla capitale britannica. Aver vinto per due mandati la corsa a primo cittadino di Londra, città senz’altro poco affine ai Tory, dimostra che l’attuale premier fosse socialmente trasversale già anni fa. E, probabilmente, già non amasse Davos e quello che rappresenta. Così come molti suoi colleghi di partito.

Un esempio per tutti. Johnson è stato direttore dello “Spectator”, il pluricentenario settimanale di qualità conservatore. E proprio sullo “Spectator” comparve una disanima ferocemente critica del cosiddetto “uomo di Davos”. Apparve nella popolare rubrica “High Society”, che detiene dal ’77 il polemista di origine greca Panagiotis Theodoracopulos, meglio conosciuto come Taki. Per il quale l’uomo di Davos, che identificava in George Soros, dopo aver distrutto “la vecchia Europa”, puntava a distruggere il Regno Unito. E a instaurare un mondo angosciante, in stile Farhenheit 451, guidato da triadi come quella formata da Soros, Angela Merkel e Angelina Jolie attraverso una sorta di polizia del pensiero. In nome di ipocrisie già dimostratesi fallimentari.

Le radici della Brexit e della vittoria dei nuovi vecchi Conservatori di Johnson stavano già nel testo di quella rubrica.

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