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Dal Vietnam all’Ucraina: da Yankee Go Home a né con la Nato né con Putin

Il Bloc Notes di Michele Magno

“Con l’altra America per la pace nel Vietnam!”: con questo titolo il quotidiano del Pci l’Unità annunciava, il 27 novembre 1965, l’inizio di una vasta mobilitazione popolare contro l’invasione americana. La scelta della data non era casuale. Nello stesso giorno, infatti, erano programmati cortei di protesta in numerosi paesi europei e una imponente marcia dei pacifisti americani a Washington. Fra i suoi promotori figuravano Albert Sabin, Saul Bellow, Arthur Miller e il leader nero James Farmer. A Roma, una veglia al teatro Adriano raccolse l’adesione di politici di diverso orientamento, organizzazioni sindacali, culturali, religiose. All’appello del comitato promotore (primi firmatari Eduardo De Filippo e Luchino Visconti) avevano risposto decine di studiosi, letterati e artisti, tra cui Norberto Bobbio, Giacomo Debenedetti, Walter Binni, Vittorio De Sica, Federico Fellini. Sull’altra sponda dell’Atlantico, il New York Times pubblicava a dicembre il famoso “Appello dei quarantasei”. Accanto a quelle di Jean-Paul Sartre, Heinrich Böll, Simone de Beauvoir, Margherite Duras, Max Ernst, Günter Grass, Hans Magnus Enzensberger, Karlheinz Stockhausen, vi erano anche le firme di otto italiani: i cineasti Michelangelo Antonioni, Cesare Zavattini, Francesco Rosi, lo scultore Giacomo Manzù, gli scrittori Alberto Moravia, Ignazio Silone, Lorenza Mazzetti e un anticomunista democratico, cosmopolita ed eretico come Nicola Chiaromonte.

Come sottolinea Francesco Montessoro in un prezioso volumetto di cui sono debitrici queste note, al di là del fascino esercitato dalla indomabile resistenza vietnamita, in quel periodo era in auge un certo terzomondismo sedotto dai processi di tipo rivoluzionario in corso a Cuba e in Algeria, in Cina e, appunto, nella penisola indocinese (Il mito del Vietnam nella cultura italiana degli anni ’60, edizioni Sissco, disponibile anche in pdf). Nel 1967 Moravia dettava corsivi benevoli sul pensiero di Mao Zedong, e alla XXVIII Mostra del cinema di Venezia, nello stesso anno, concorsero film dai titoli evocativi come “La cinese” di Jean-Luc Godard e “La Cina è vicina” di Marco Bellocchio. Italo Calvino, inoltre, aveva accettato di scrivere per un editore britannico un pamphlet contro la guerra del Vietnam, dove affermava che la guerriglia dei vietcong “di tutte le lotte partigiane del nostro secolo è la più diffusa e la più sostenuta dagli abitanti, la più ingegnosa”. Dal canto suo, il musicista Luigi Nono, partecipando nell’aprile 1967 a un famoso incontro all’Università di Roma, esprimeva opinioni altrettanto radicali.

Il mese seguente la rivista Rinascita ospitò un articolo di Marcello Cini, professore di fisica teorica alla Sapienza. Iscritto al Pci, ma in seguito tra i fondatori del quotidiano Il Manifesto, aveva fatto parte della delegazione del Tribunale Russell inviata nel Vietnam del nord per documentare le devastazioni provocate dai bombardamenti “yankee”. I suoi resoconti, in realtà, non descrivevano tanto la lotta per riunificare una nazione divisa dalla logica dei blocchi contrapposti, quanto il carattere originale della società socialista che Ho Chi Min stava costruendo. Sensibile a suggestioni di tipo maoista, concludeva che “da parte del movimento operaio dei paesi capitalistici occidentali […] l’appoggio al Vietnam deve andare al di là della doverosa protesta contro l’ingiustizia e della generosa solidarietà verso un paese aggredito, ma deve diventare consapevolezza della stretta interdipendenza che lega tutte le lotte per il socialismo nel mondo”.

Anche negli ambienti laici e progressisti non pregiudizialmente antiamericani, vennero accolte con simpatia le istanze anticoloniali che si diffondevano nei paesi del Terzo mondo. Comunità, la rivista voluta da Adriano Olivetti, aveva pubblicato già nella primavera del 1963 un appello di personalità liberal d’oltreoceano a favore della pace. Un ruolo culturalmente affine svolse Il Ponte, un mensile legato a quello che era stato il Partito d’Azione fiorentino, e attorno a cui gravitavano figure illustri come Piero Calamandrei, Tristano Codignola, Giorgio Spini. Sotto la direzione di Enzo Enriques Agnoletti, il mensile si distinse per le informazioni di prima mano che forniva sulle campagne internazionali che in quel periodo venivano organizzate contro la politica estera di Lyndon Johnson. In questo milieu culturale spiccavano i nomi di Danilo Dolci e Aldo Capitini. Il primo, limpida figura di pacifista legato allo stesso Capitini, impegnato contro la mafia in Sicilia, nel 1966 divenne membro del Tribunale Russell e l’anno successivo organizzò una marcia per la pace nel Vietnam che attraversò l’Italia, sollecitando il governo Moro a prendere le distanze dall’aggressione americana. Ancora più nette le posizioni di Aldo Capitini, l’organizzatore nel 1961 della prima “marcia della pace Perugia-Assisi”. Antifascista e democratico, pacifista e non violento, animato da un profondo e libero spirito religioso, Capitini scrisse nel 1964 alcuni articoli in cui esaltava le gesta dei buddisti vietnamiti, per i quali “il suicidio diventa l’estremo tentativo di protesta scegliendo tra la morte dell’altro e la propria -come se al sommo una morte ci voglia per mutare la situazione- la propria morte”. Il riconoscimento di un siffatto valore alle manifestazioni estreme della protesta dei bonzi lo portava a indicare nel neutralismo la sola e auspicabile prospettiva per una pace possibile.

La questione vietnamita apparve relativamente tardi nella pubblicistica della sinistra che ambiva ad affrancarsi dall’egemonia del Pci. Solo nei primi mesi del 1964 fu affrontata sulle colonne del trimestale Quaderni Piacentini, traducendo alcune lettere di  combattenti sudvietnamiti. Per altro verso, una valente sinologa, Edoarda Masi, nel 1965 aveva pubblicato sui Quaderni Rossi, il periodico torinese fondato da Raniero Panzieri, “Rivoluzione nel Vietnam e movimento operaio occidentale”. Un saggio, poi edito da Einaudi nel 1968, che avrebbe influenzato profondamente il dibattito sul significato della rivoluzione vietnamita, interpretata come un segno della crisi irreversibile del sistema capitalistico. Per altro verso, il bimestrale Quindici, legato a esponenti dell’avanguardia letteraria come Alfredo Giuliani, Edoardo Sanguineti, Angelo Guglielmi e poi, tra gli altri, come Nanni Balestrini, Alberto Arbasino, Umberto Eco, considerava la questione vietnamita come cruciale per comprendere quel ribellismo giovanile che, sulle due sponde dell’Atlantico, inneggiava a Che Guevara, Mao, Fidel Castro.

In Italia, durante i pontificati di Giovanni XXIII e Paolo VI, la domanda di rinnovamento del mondo cattolico scaturita dal Concilio Vaticano II aveva aperto un vivace dibattito sull’impegno del credente nella società e nella politica. In un contesto di pur cauto dialogo con la cultura marxista, il conflitto vietnamita diventò una sorta di spartiacque tra le posizioni filoamericane del gruppo dirigente della Dc e gli esponenti del “dissenso” guidati da Giorgio La Pira. Formatosi alla scuola di Emmanuel Mounier, Jacques Maritain e Luigi Sturzo, schierato nella sinistra dossettiana, l’ex sindaco di Firenze svolse un ruolo importante nei movimenti pacifisti che si battevano contro il pericolo di una guerra nucleare. Nel 1959 si recò a Mosca, nel 1964 negli Stati Uniti e, l’anno successivo, ad Hanoi incontrò Ho Chi Minh. Al ritorno in Italia, si fece latore di un suo messaggio che fu recapitato, attraverso il ministro degli Esteri Amintore Fanfani, al Segretario di Stato Dean Rusk.

Le stesse gerarchie ecclesiastiche e la diplomazia vaticana non mancarono di prestare una viva attenzione allo sviluppo delle tensioni rivoluzionarie che attraversavano l’Asia e l’America latina. Nell’enciclica “Christi Matri” (settembre 1966), Paolo VI esortava tutte le parti belligeranti del Vietnam a “trattative leali”. Un invito volto a smussare gli atteggiamenti oltranzisti e tradizionalmente filoamericani dei cattolici vietnamiti, che negli anni Cinquanta avevano espresso una figura assai discutibile come Ngo Dinh Diem, appoggiato dal cardinale Spellman, protagonista di una dura crociata anticomunista. In una enciclica successiva, la “Populorum Progressio” (marzo 1967), Papa Montini sconfessava la presunta legittimità delle ribellioni armate: “Si fa più violenta la tentazione di lasciarsi pericolosamente trascinare verso messianismi carichi di promesse, ma fabbricatori di illusioni. Chi non vede i pericoli che ne derivano, di reazioni popolari violente, di agitazioni insurrezionali, e di scivolamenti verso le ideologie totalitarie?”. Ma la loro condanna veniva poi temperata con queste parole: “Sappiamo che l’insurrezione rivoluzionaria -salvo nel caso di una tirannia evidente e prolungata che attenti gravemente ai diritti fondamentali della persona e nuoccia in modo pericoloso al bene comune del paese- è fonte di nuove ingiustizie, introduce nuovi squilibri, e provoca nuove rovine”.

Di avviso completamente diverso era il periodico Testimonianze. Casa di ambienti cattolici radicali, legati all’esperienza della comunità dell’Isolotto, il mensile fiorentino divenne sede di accesi confronti su vari temi ecclesiali, etici e politici, tra cui proprio quello della violenza giustificata da “ragioni giuste”.  Commentando la “Populorum Progressio”, il suo leader, padre Ernesto Balducci, affermava: “La Chiesa non può non riconoscere una totale parità di diritti civili ed ecclesiali a tutti i popoli e a tutte le razze, ma, in virtù della sua situazione effettuale, essa non può riconoscere fino in fondo quei diritti, per timore di perdere le garanzie umane della sua stessa sopravvivenza”. Balducci spronava quindi la Chiesa a compiere gesti coraggiosi: “In che modo potremo farci banditori di pace e di mitezza ai negri, ai vietcong, ai guerriglieri di tutto il mondo, noi che nel passato abbiamo giustificato le guerre fatte per una causa giusta?”. E concludeva: “Così ci troviamo, per aver peccato contro gli imperativi assoluti della fede, ad apparire solidali con i popoli ricchi ed oppressori, e a non aver sufficiente prestigio morale[…]. Il segno di tanta angoscia lo ritrovo in me, convinto sostenitore della non-violenza, quando, di fronte ad alcune situazioni limite di questi tempi, mi sorprendo a domandarmi se la violenza non sia l’unica via imposta dall’amore”.

Ben più prudenti erano le posizioni di Civiltà cattolica. L’organo dei gesuiti italiani non lesinava informazioni puntuali sulla questione vietnamita, senza tuttavia nessuna enfasi particolare. Gli articoli, sempre anonimi, erano inclusi nella sezione “Estero” della rubrica “Cronaca contemporanea”: una collocazione di basso profilo. In questi articoli, d’ispirazione moderata e sostanzialmente filoamericana, l’autore solitamente dava conto in modo dettagliato degli aiuti umanitari di Washington al regime di Saigon, considerati uno strumento imprescindibile per aprire la strada del negoziato. Una tesi destinata a essere clamorosamente smentita dalla progressiva recrudescenza del conflitto, che terminò il 30 aprile 1975 con la caduta di Saigon.

Pur con tutte le sue ambiguità, abbagli, reticenze e velleitarismi ideologici, insomma, l’intellighenzia progressista italiana non esitò a “sporcarsi le mani” sulla questione vietnamita. Pensando al suo impegno odierno su quella ucraina, il paragone è impietoso. Complice la cassa di risonanza offerta dai talk show televisivi, il palcoscenico mediatico è oggi calcato con successo anzitutto dall’intellettuale “neneista”. Coniato da Roland Barthes, il termine neneismo consiste nello stabilire due contrari e nel soppesarli l’uno con l’altro in modo da rifiutarli ambedue: non voglio né questo né quello. Si tratta di un procedimento magico, precisa il principe dei semiologi francese, attraverso cui si equipara quanto è imbarazzante scegliere per liberarsi di una realtà che non corrisponde ai propri pregiudizi. Dal “né con lo Stato né con le Br” di ieri al “né con la Nato né con Putin” di oggi, la nostra storia più recente è piena di neneisti. Pallide controfigure del Romain Rolland autore, poco dopo l’inizio della Grande guerra, di Au-dessus de la mêlée (“Al di sopra della mischia”), non hanno il coraggio di assumersi la prima responsabilità che Norberto Bobbio imputava agli intellettuali: quello di impedire che il monopolio della forza divenga anche il monopolio della verità.

Nel tempo presente, dove sono in gioco i valori sommi della democrazia liberale, non c’è spazio per posizioni terziste (leggi: antioccidentali). Bisogna scegliere da che parte stare: o di qua o di là. Per riprendere una metafora cara a Julien Benda, tra Michelangelo che rinfaccia a Leonardo la sua indifferenza alle sventure di Firenze, e Leonardo che risponde che lo studio della bellezza occupa tutto il suo cuore, i sedicenti partigiani della pace non dovrebbero avere dubbi a schierarsi con lo scultore della Pietà. C’è un verso del Bellum Civile del poeta latino Lucano che recita: “Victrix causa deis placuit/ Sed victa Catoni”. Il suo senso è: la causa di Cesare vinse perché appoggiata dagli dei, mentre Catone l’Uticense perse per aver sposato la causa della libertà repubblicana. Significa che i vinti hanno sempre torto per il solo fatto di essere vinti? Ma il vinto di oggi non può essere il vincitore di domani?

 

*Il Foglio

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