Se il primo non sembra opinabile, forse il secondo mestiere più antico del mondo è quello del mercenario. Fin nel secondo millennio avanti Cristo, infatti, mercenari erano i sardhana, predoni sardi al servizio del faraone Ramses II. Gli Hittiti arruolavano i pirati lici e gli Assiri i montanari dello Zagros mesopotamico. Di mercenari si servivano il tiranno ateniese Pisistrato e il tiranno di Samo Policrate. Mercenari erano i diecimila greci al soldo del satrapo persiano Ciro il Giovane, le cui gesta sono narrate da Senofonte nella “Anabasi”. Mercenari erano anche i celti, i numidi e gli iberici impiegati da Cartagine nelle tre guerre puniche contro Roma. Le stesse legioni romane erano affiancate da frombolieri delle Baleari a da arcieri cretesi. Prima dell’anno Mille, gli imperatori bizantini utilizzavano guerrieri longobardi e dalmati, alamanni germanici e variaghi scandinavi, come guardia personale o per scortare i catafratti, cavalieri muniti di pesanti corazze.
“Soldat qui sert à prix d’argent un gouvernement étranger”: è la definizione di mercenario che si trova nel dizionario Larousse. È sicuramente accettabile per i condottieri medievali, i lanzichenecchi e le “lance” svizzere, i legionari francesi e i gurkha indiani, gli ufficiali britannici della Legione araba in Giodania e per le bande degli “Affreux” (“Atroci”) nell’Africa nera. Ma non si adatta a capi mercenari — decisivi nella guerra dei Trent’anni (1618-1648) — come il boemo Albrecht von Wallenstein o il belga Johann Tserclaes, conte di Tilly. Perché non erano pagati da un governo straniero, ma dal loro imperatore Ferdinando II. E non si addice nemmeno ai sikh o ai rajput della dominazione inglese in India, perché — diversamente dai gurkha — erano sudditi di Sua Maestà. In altre parole, se un mercenario è sempre un soldato professionista, un soldato professionista non necessariamente è un mercenario. Si tratta di una sfumatura, ma di una sfumatura delicata sul piano etico.
Nell’Europa novecentesca il divieto bismarckiano di arruolare mercenari diventerà una sorta di imperativo categorico. Con l’eccezione della Spagna di Francisco Franco, solo nelle guerre coloniali le potenze continentali continueranno a servirsi di truppe mercenarie. Le origini di quelle più celebrate si possono far risalire ai contadini della Waldstätte. Perché i reggimenti svizzeri, dopo l’interludio rivoluzionario, erano tornati sotto l’egida della Francia con la Restaurazione del 1814. Incorporati nell’esercito borbonico, vengono sciolti nel gennaio 1830. Ma salito al trono Luigi Filippo, il 9 marzo 1831 il maresciallo Soult — ministro della Guerra — firma l’atto di nascita di “una legione di stranieri per il servizio al di fuori della Francia”. Nel giugno del 1835 la Legione straniera viene “affittata” alla regina Cristina di Spagna. Nel 1837 distruggerà nella battaglia di Barbastro le milizie mercenarie di Don Carlos, il rivale di Cristina. Inizia qui la mitologia delle brigate multietniche create dal colonnello Joseph Bernelle. L’alone di eroismo che le circondava da oltre un secolo si offuscherà nel 1954 a Dien Bien Phu, dove i legionari francesi verranno sconfitti dalle forze nazionaliste indocinesi del generale Giap. “Mon Légionnaire”, canterà Edith Piaf con voce strozzata. Sarà il dramma di un popolo intero, recitato di fronte al mondo con patriottico decoro.
La conclusione si impone da sé: è difficile definire con precisione cosa è un mercenario, poiché la sua figura è stata storicamente mutevole. Nella realtà feudale, il termine mercenario aveva un significato meramente descrittivo: il cavaliere aveva l’obbligo di servire, ma il sovrano non aveva l’obbligo di pagare. Con la formazione degli Stati nazionali, che tenderanno a esaltare le virtù patriottiche, il termine diventa spregiativo. E tuttavia si esporrà ugualmente a qualche confusione semantica, soprattutto quando entreranno in scena gli ideali umanitari e le “guerre giuste”. Seppure con una certa sfrontatezza, i mercenari che combattevano in Katanga negli anni Sessanta del secolo scorso si sentiranno legittimati a chiamare i caschi blu dell’Onu “les super-mercenaires”.
Dopo la fine del secondo conflitto mondiale, i paesi belligeranti erano pieni di soldati disoccupati, di sradicati, di avventurieri. Come sottolinea Marco Guidi nella postfazione al libro di Mockler, presto per loro si spalancherà un intero continente, l’Africa. L’Africa delle lotte per l’indipendenza, delle guerriglie tribali, degli interessi delle grandi compagnie minerarie, dello scontro tra Usa e Urss. In questo contesto, il Congo ex belga — con le sue immense ricchezze — diventa il teatro principale delle imprese mercenarie di Jean Schramme, Bob Denard, Mike Hoare, Siegfred Müller (che aveva combattuto con Hitler). Poi verrà il tempo degli “aiuti fraterni” dei paesi comunisti, Cuba in prima fila.
Le ultime guerre che vedono in azione gruppi mercenari saranno quelle dei Balcani. Spariscono i mercenari e appaiono i contractor, frutto del crollo del potere bianco in Rhodesia e in Sud Africa. Migliaia di appartenenti alle forze armate e ai corpi speciali di polizia si ritrovano senza lavoro e cominciano a infoltire i ranghi delle “Private Militay Companies” (PMC). Negli anni Novanta queste compagnie private di sicurezza nasceranno come funghi. I servizi resi al Pentagono dalla più nota, la Blackwater, rappresentano una delle voci più cospicue nel bilancio della Difesa statunitense. Ma i moderni contractor non vedono quasi mai un campo di battaglia. Sono soprattutto addestratori, piloti, esperti di tecnologie belliche, e sono richiestissimi in tutte le aree più a rischio del pianeta.
Diverso è il caso dell’organizzazione paramilitare nota come Gruppo Wagner (GW). Fondata nel 2014 da Dmitriy Valeryevich Utkin, già colonnello dell’Intelligence russa (GRU) e legato da strettissimi rapporti con il magnate Evgheny Prigozhin, patron di un vero e proprio impero della ristorazione che gli ha guadagnato il soprannome di “cuoco di Putin’’. L’esordio del GW, dal nome di battaglia di Utkin (il suo compositore prediletto), avviene nello stesso anno nel Donbass, a sostegno delle forze separatiste delle autoproclamate Repubbliche di Donetsk e Lugansk. Successivamente è stato attivo in Libia (come colonna delle operazioni del generale Haftar contro il governo di Tripoli), in Siria (come gregario delle milizie fedeli ad Assad), nella Repubblica Centroafricana, in Sudan, nel Mali, in Mozambico (per proteggere le miniere di diamanti e metalli preziosi). È un mestiere che tira, insomma.