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Cottarelli, le case e l’urbanistica di Milano: la missione impossibile di Sala

Perché la fase 2 evocata dal sindaco Sala per Milano è solo un sogno. Il commento di Polillo

Elementare Watson! Carlo Cottarelli, dalle pagine del Corriere della Sera, ci offre la ricetta per risolvere il problema di Milano. E non solo. Il problema non è non costruire grattaceli, ma realizzare normali case d’abitazione. La prima opzione, sempre che tutto avvenga nel rispetto delle regole urbanistiche (cosa da accertare), non esclude la seconda. Anzi, salvo eventuali ingorghi dovuti ad un eccesso di domanda dei fattori che sono indispensabili per la costruzione, vi può essere sinergia. Ed allora perché questo non è avvenuto?

Perché, risponde Cottarelli, i prezzi ai quali gli immobili di minor pregio dovevano essere venduti erano troppo bassi. Le imprese, che ragionano in termini di costi e di ricavi, non trovando adeguate le gare d’appalto, vi avevano semplicemente rinunciato. Di conseguenza lo squilibrio tra domanda ed offerta delle abitazioni aveva fatto il resto. Facendo aumentare i prezzi di tutta la filiera. Con grande gioia dei vecchi proprietari, che hanno goduto di un “effetto ricchezza”. Ma con grande scorno di chi un’abitazione ancora non la possedeva.

Come uscirne? Sussidiandone direttamente l’acquisto o l’affitto mediante bonus a carico della finanza pubblica, da concedere al neo-proprietario o neo-affittuario? Soluzione poco elegante, con il rischio di abusi infiniti. Meglio sarebbe allora un intervento diretto in sede d’appalto. Prevedere, cioè, un contributo da corrispondere, a fine lavori, alla ditta aggiudicataria. Procedura più gestibile, ma non esente da difetti a causa di quella confusione pubblico – privato, che difficilmente porta a buoni risultati.

Ed allora bisogna andare più in là. La riflessione da avviare è sulle caratteristiche della politica economica. Da adattare ai cambiamenti che, nel frattempo, sono intervenuti nella morfologia dello sviluppo economico dell’intero Paese. Una crescita a macchia di leopardo, che ha rotto le vecchie uniformità (se mai ce ne fossero state) degli anni precedenti. C’è una parte del Paese, che comprende ovviamente anche Milano, che è fortemente globalizzata, contro un’altra che vivacchia secondo gli schemi del passato. Si pensi solo alle differenze che intercorrono tra l’Emilia Romagna o il Veneto, rispetto ad una delle tante regioni meridionali. Differenza che riguardano soprattutto la proiezione internazionale dei singoli territori.

Dal 2010 in poi, vale a dire subito dopo la Global Financial Crise, il forte avanzo commerciale, che ha cambiato il volto dell’Italia, si deve solo a quattro regioni: Emilia Romagna, Veneto, Piemonte e Toscana. Da questo punto di vista, Milano rappresenta un’anomalia rispetto alla stessa Lombardia, il cui tessuto produttivo non ha la stessa forza del suo capoluogo. Forza dovuta non tanto alla manifattura, quanto ai servizi che Milano offre, compresi i grandi vantaggi fiscali garantiti ai super ricchi dell’intero Pianeta.

Simili risultati, di fronte ad una concorrenza internazionale più che agguerrita, sono stati ottenuti grazie ad una crescita della produttività, che non trova riscontro nelle statistiche ufficiali. Queste ultime sono, in genere e salvo indagini specifiche, costruite su base nazionale. Per cui, in un Paesi affetto da un dualismo esasperato, come l’Italia, somigliano da vicino alle medie di Trilussa. Tolgono ai migliori, per avvantaggiare i ritardatari. Con la conseguenza di alterare profondamente la ripartizione dei relativi benefici: penalizzando il lavoro a vantaggio del capitale nel primo caso; l’opposto nel secondo.

I salari, infatti, sono contrattati a livello nazionale. Risentano, pertanto, del peso delle aziende meno produttive, in genere dislocate nelle altre Regioni del Paese. Nelle aree più dinamiche le retribuzioni sono pertanto trattate a sconto. Il che garantisce rendimenti maggiori al capitale colà investito. Destinati, a loro volta, a condizionare il restante sviluppo. In genere la maggiore disponibilità di risorse nelle mani di un ceto ristretto porta ad una maggiore crescita inflazionistica, essendo più limitato ogni incentivo di tipo concorrenziale dal lato della domanda. Per coloro che sono al di fuori di quella cerchia, invece, una doppia penalizzazione risulta evidente: percepiscono un salario o uno stipendio inadeguato. Sono falcidiati da un’inflazione indotta dai consumi opulenti dei ceti più abbienti.

Sul piano generale il risultato è, pertanto, simmetrico rispetto alle vecchie “gabbie salariali” degli anni 1954/69. Allora i salari percepiti al Sud erano minori per due motivi: la produttività più bassa e il costo della vita più contenuto. Nell’epoca attuale, invece, nei territori più dinamici, il salario, misurato in termini di produttività relativa, è molto più basso, mentre il costo della vita è di gran lungo superiore. Ed ecco allora spiegato il fenomeno dello spiazzamento: dei nuovi ricchi residenti milanesi, che emarginano progressivamente i vecchi ceti. Uno spiazzamento che, in estrema ratio, ha una valenza tutta politica, su cui varrebbe la pena di indagare.

Se questi sono i termini della questione, è facile cogliere quanto sarà difficile per Giuseppe Sala, il varo di una “fase due”, nella gestione del Comune di Milano. Nel fuoco della contesa giudiziaria, dovrà evitare di bloccare il vecchio “modello”. Aumentare gli esborsi a favore del welfare, riuscendo a far costruire case a basso costo, per poi immetterle sul mercato. Passare da una gestione centralizzata – manageriale, ad una collegiale con il supporto di una maggioranza politica, tutt’altro che coesa su alcuni punti qualificanti. Il tutto nel breve intervallo che rimane, prima delle prossime elezioni. Un evidente percorso ad ostacoli. Auguri, caro Sindaco!

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