Skip to content

le grand continent

Cosa succederà nel mondo? Gli umori alla mini-Davos a Saint-Vincent

Chi c'era e cosa si è detto al summit annuale della rivista Le Grand Continent a Saint-Vincent. 

Siamo in un interregno, dice Le Grand Continent, la rivista europea che ha riunito, tra il 3 e il 5 dicembre a Saint-Vincent 130 personalità europee e occidentali, in una seconda mini-Davos europea, dopo la prima di dicembre 2023.

Da un lato, c’è il mondo che abbiamo conosciuto, multilaterale, di libero scambio e commercio, con politiche di sviluppo e obiettivi delle Nazioni Unite, orientata alla pace. Era un mondo comprensibile, fosse anche di pax americana o di pace motivata dal commercio, un periodo post-guerra fredda che sembrava poter durare.

Dall’altro c’è un mondo ancora sconosciuto, di cui si vedono i tratti, ma che certamente presenta crisi gravi e ne annuncia altre che fanno ancora più paura. La chiave del Summit del Grand Continent è cercare di capire se incomincia a disegnarsi una cassetta degli attrezzi, un nuovo software di concetti e principi per gestire un mondo ancora da definire o da costruire.

Oppure non servono nuovi concetti. Se si tratta di una caduta nel vuoto, come se ne sono viste nel Novecento (le dittature tra le due guerre e le guerre), bisogna tenere dei punti fermi proprio dinanzi a un cambiamento che è solo arretramento. Alcuni principi risalgono addirittura all’età moderna, tra cui quelli di libertà o di tutela e promozione dell’individuo.

In ogni caso, siamo in un interregno e bisogna capire.

CHI C’ERA

Se si parla di 130 personalità, vuol dire che i nomi ci sono così come i contenuti da discutere.

Anche in mezzo alla crisi di governo francese, Edouard Philippe, che è a capo di Horizons (uno dei partiti della ex-maggioranza del presidente) ed ex-primo ministro ha partecipato il 4 dicembre a una sessione sulle divergenze tra Europa e Stati uniti nella prossima Trumponomics.

Era a poca distanza da Paolo Gentiloni, che da quattro giorni ha smesso di fare il commissario europeo all’economia, così come Josep Borrell che ha concluso il suo mandato di alto rappresentante e vicepresidente della Commissione europea. C’era il ministro degli affari esteri spagnolo José Manuel Albares, Laurence Tubiana, a capo della European Climate Foundation ma ben conosciuta negoziatore degli accordi di Parigi sul clima del 2015.

Se non avete pazienza, passate al prossimo paragrafo: c’erano anche il ministro delle finanze ucraino Serhii Marchenko, Kristina Kallas, ministra dell’educazione e della ricerca dell’Estonia (e non è parente di Kaja Kallas, ora capo degli esteri alla Commissione, dopo Borrell), Cecilia Nicolini ex-ministra dell’ambiente dell’Argentina, Brando Benifei (S&D) dal parlamento europeo, Igor Mally, ministro degli affari europei della Slovenia, Josez Siklea da poco Commissario europeo per i partenariati internazionali, Elisabeth Baltzan, dell’ufficio esecutivo del presidente Biden, consigliere per commercio e investimenti, Pascal Lamy, l’uomo icona del libero scambio mondiale, al WTO e alla Commissione europea, l’ex-commissario Johannes Hahn, e altri.

Alcuni erano esponenti dell’industria, tra cui Giampiero Massolo, ora in Mundys (con una carriera nella diplomazia e nello Stato), Markus Kerber, ex-capo della Confindustria tedesca, Helman le Pas de Sécheval, segretario generale di Veolia.

C’erano un po’ di professori, Ian Garner e Adrian Vermeule di Harvard, Francesco Giavazzi della Bocconi, Barry Eichengreen di Berkeley,  David Edgerton del King’s College di Londra, Klaus Welle del Martens Center (ma ex-segretario generale del parlamento europeo), Jonathan White e Lea Ypi della London School of Economics o Jean-Yves Dormagen di Cluster17, una think tank piccola e ben focalizzata.

E poi un po’ di giornalisti, Yaroslav Trominof del Wall Street Journal, Rana Foroohar ed Henry Foy del Financial times, Barbara Moens di Politico, Rachel Donadio di The Atlantic, Stanley Pignal dell’Economist, Andrea Rizzi di El Paìs, Katrin Bennhold del New York Times, Federico Fubini del Corriere della Sera.

COSA SI È DETTO DEL MONDO ROTTO E DELL’INTERREGNO

Vi sarete forse annoiati a leggere questa sfilza di nomi – e ce ne sarebbero ancora – ma offrono un’idea dell’aria che tirava. Ovviamente, con questo parterre, si sono sentite cose note, che si leggono sulle testate nazionali e internazionali. Altre sono emerse come avviene nelle discussioni, in gruppi o laboratori. Tra queste, alcune idee e concetti sono conosciuti ma non consolidati, e altri ancora proprio da capire.

Saltiamo le questioni conosciute per parlare di interregno, del dopo l’epoca del dopoguerra e del post-guerra fredda. Qui mancano anche le categorie e i nomi, ma qualcosa sta emergendo.

Per esempio, nella giornata di pre-apertura, a un panel sull’informazione in tempo di guerra, si è detto che si deve parlare non tanto di “influenza” russa sui media e sulle società occidentali, ma di “confluenza”.

La politica di informazione o disinformazione è “propaganda” che agisce su ambienti e forze “esistenti” nelle società europee e occidentali (gruppi, aree politiche, partiti, associazioni). Vengono alimentate e rafforzate dalla Russia con mezzi, idee e amplificazioni: e viene da pensare che anche in epoca sovietica o di Internazionali socialiste era così.

L’Europa e l’Occidente non fanno “propaganda”, hanno buoni principi, ma nell’epoca in cui siamo, bisogna aprire gli occhi. Siamo in una “guerra dell’informazione”, non basta far le pulci alla disinformazione con il fact checking. Bisogna cambiare modalità, anche nei Paesi terzi aggressivi, far propaganda.

È solo un esempio degli incontri di questi giorni: si assiste alla costruzione di concetti e strumenti. Su questo caso in particolare hanno dibattuto Hugo Micheron di Sciences Po Paris, Marc Semo, Le Monde e Libération, Marlène Laruelle della George Washington University.

NON C’È UN SUD GLOBALE, E LA DEGLOBALIZZAZIONE

E poi, non c’è un Sud globale, ma diversi sud, e uno è in America del Sud. La nuova cassetta degli attrezzi fa delle distinzioni, proprio perché l’Argentina parla con valori europei (il Grand Continent, in una delle accezioni, è la storia europea anche fuori d’Europa), a differenza del mondo arabo o del sud asiatico. L’accordo del Mercosur è quindi importante.

L’impressione dal Summit di Le Grand Continent, è che l’arrivo di Trump giunga senza che l’Europa sappia che pesci pigliare. Ci sono delle idee, ma sparse.

Secondo Paolo Gentiloni gli scossoni ci sono, ma al di sotto vi è la continuità dei grandi interessi di ogni Paese, compresi gli Stati Uniti, e di gruppi di Paesi (l’occidente). Anche Giampiero Massolo invita alla prudenza nelle previsioni di catastrofi, per esempio sulla stabilità dei governi europei.

In un panel vi erano grandi interrogativi sul debito pubblico statunitense, sulla possibile nuova inflazione provocata dai dazi, sulla riduzione della sicurezza interna, sull’isolamento europeo rispetto alle minacce russe, alle instabilità africane, mediterranee e del Medio Oriente.

Pascal Lamy, rispetto agli attacchi al commercio internazionale, diceva che l’Europa deve rispondere in modo fermo, da una posizione di forza. Lamy aveva coniato una bella espressione, tutt’ora in voga, dell’Europa che non può essere “l’unico erbivoro in un prato di carnivori”. Lamy è sembrato uno di quelli secondo cui non si va verso un mondo nuovo, ma verso un mondo brutto, e che il mondo vecchio era già agguerrito, e che gli attrezzi principali da usare non cambiano.

È pur vero, si è capito, che si va verso la deglobalizzazione. Il fenomeno è iniziato almeno dal 2005-2008, a cui hanno partecipato persino Obama, Biden e l’Inflation Reduction Act, e non solo Trump o i Bush. Non si è detto quanto questa deglobalizzazione possa essere “regionale”, cioè per grandi blocchi anche con tensioni interne, come quello euro-atlantico-sudamericano. Altre aree di deglobalizzazione paiono in costituzione, dove la guerra in Ucraina catalizza nuove alleanze militari ed economiche, come si intravvede tra Russia, Cina e Corea del Nord.

CONSTATARE LA REALTÀ È UN PRIMO PASSO PER MUOVERSI NELL’INTERREGNO

Sono fatti decisivi, perché adottare o meno l’accordo del Mercosur tra Ue e America latina ha un effetto geopolitico (altrimenti arrivano i cinesi, che già ci sono) come ha detto il ministro degli esteri spagnolo José Manuel Albares.

Rispetto agli anni Novanta, l’opinione politica e pubblica in Francia è ora diffidente al free trade, salvo che per il mercato interno europeo, e quindi al trattato Mercosur. Lo ha detto con grande calma Edouard Philippe, spiegando come il senato francese non riesca a ratificare neppure il CETA con il Canada, che pure porta vantaggi alla Francia.

Per non parlare poi della crisi di competitività europea (con i richiami ai rapporti di Enrico Letta e Mario Draghi), o della nuova architettura di sicurezza europea. Ecco allora l’ombrello Nato, e quale Nato, e quale ruolo europeo se già si fatica a comprare gli stessi mezzi militari, e con la minaccia russa che non fa giri di parole. E poi le instabilità interne europee, la Francia senza governo, la Germania a elezioni, lo stabile governo di destra (o di estrema destra) in Italia dicono intanto che bisogna constatare e non negare la realtà, come ricordava Giovanni Orsina, che ha parlato delle evoluzioni europee delle destre. L’Italia ha già elaborato il loro arrivo e il confronto con la realtà, mentre in altri Paesi le scosse ancora ci sono, ci vogliono adattamenti.

Interessante presenza al Summit, quella di Orsina, come di altre figure apprezzata da Le Grand Continent per cercare voci che provano ad accendere lampade, anche a costo di confondere piuttosto che di chiarire. L’anno scorso, Niail Ferguson (britannico ma di stanza a Stanford) disse – il tono era provocatorio e forse fastidioso – che Trump sarebbe arrivato. Molti erano scaramantici, dubbiosi, ma aveva ragione.

Torna su