Il Paese è come il Vesuvio nella famosa eruzione di Pompei del 79 d.C. immortalata nella descrizione di Plinio il giovane: un vulcano che sta esplodendo con effetti e ricadute imprevedibili e, soprattutto, inimmaginabili fino a po’ tempo fa. Le sue mitiche banche sono in gran parte insolventi, la lira è crollata, la disoccupazione è alle stelle, il carburante e il cibo scarseggiano e metà dei libanesi vivono al di sotto della soglia di povertà. Il dramma è tale che la Banca Mondiale ha affermato che la crisi libanese si può collocare tra le prime 3 crisi a livello globale negli ultimi 150 anni.
La Svizzera del Medio Oriente è quindi ad un passo dal fallimento.
Ormai non resta che invocare San Charbel, patrono del Paese, per salvare il Libano. Il Santo “non lascerà crollare il Libano” e bisogna cercare in lui “il miracolo della nostra salvezza da questo sfacelo totale”: è questo l’auspicio del Patriarca maronita Béchara Raï che vede ormai solo nel Patrono (e nell’aiuto del Fondo Monetario Internazionale) la via d’uscita da questo dramma. Nell’attesa dell’intervento del FMI, è meglio invocare intensamente San Charbel.
Un detto popolare libanese recita: “assicurati di dire le tue preghiere, o attraverserai l’inferno due volte, in Libano e nell’aldilà”. Una rappresentazione così tragica del Libano fa riflettere soprattutto se si pensa che il Paese era fino a pochi anni fa un modello invidiato per stabilità valutaria, dinamismo economico e qualità della vita. Il modello libanese era riassunto nei think tank specializzati come “un Paese dalla marcata instabilità politica ma dalla straordinaria stabilità finanziaria”.
Perché siamo giunti a questo punto?
La crisi del Paese dei cedri ha radici remote nella storia e si muove sempre su un complesso di motivazioni interne ed esterne.
Dal punto di vista esterno l’assenza di un garante della stabilità del Paese, qual era fino al decennio precedente la Siria, l’aumento dell’influenza iraniana per il tramite dell’Hezbollah (contrastata con tutti i mezzi da Israele) ma, soprattutto, la presenza di un milione e mezzo di profughi siriani che difficilmente potranno rientrare in Siria e sono pertanto destinati nel medio-lungo periodo a destabilizzare in numeri dei gruppi confessionali, già ora critici.
Si pensi che nel secondo dopo guerra i cristiano-maroniti erano la maggioranza della popolazione libanese mentre ora è da ritenersi minoranza rispetto alle componenti musulmane.
L’elemento più critico della crisi è tuttavia da individuare a livello endogeno, cioè nell’architettura organizzativa dello Stato. Il sistema politico libanese è bloccato dalla sua struttura confessionale collusiva di un sistema di corruzione ed interessi clientelari strutturali. È il paradosso libanese: Stato pluriconfessionale, dalle grandi potenzialità, terra di famosi intellettuali e dalla stabilità finanziaria sopravvissuta alla lunga guerra civile ma, al contempo, Stato fiaccato dal settarismo, dagli squilibri economico-sociali, da spaccature sempre più profonde nella società (anche i cristiani maroniti sono divisi al proprio interno riguardo alle alleanze da perseguire) e dalla corruzione diffusa. La costituzione libanese nata in seguito agli accordi di Ta’if del 1989, avrebbe dovuto superare la rigida spartizione delle cariche dello Stato tra le confessioni religiose invece ha riprodotto lo stesso sistema basato sulla ripartizione per fede. Ad aggravare il quadro estremamente complesso anche la legge elettorale che prevede per ogni circoscrizione un’aliquota di seggi parlamentari a favore di ciascuna comunità religiosa. La legge elettorale è dirimente per comprendere che, nonostante il Presidente cristiano maronita Aoun abbia chiamato l’uomo più ricco del Libano a formare un governo, il miliardario Najib Mikati, non ci sarà alcun vero cambio di passo nella politica libanese
Riavvolgiamo il film degli ultimi mesi e partiamo dal momento in cui cambia lo scenario.
Dopo la caduta del governo Diab, la cui spallata definitiva fu la tremenda esplosione al porto di Beirut il 4 agosto 2020, il Libano si ritrova con un governo ad interim in quanto né Adib né Saad Hariri sono riusciti a formarne un nuovo governo. In particolare, dopo il breve tentativo di Adib, da ottobre a luglio, il sunnita Hariri ha fallito per differenti motivi ma, soprattutto, perché Hariri vedeva la soluzione della crisi libanese in un governo tecnico che superasse i veti incrociati dei partiti mentre per Aoun la soluzione è quella di una via politica tutta libanese.
Il 15 luglio di quell’anno, con le parole “che Iddio protegga il Libano”, Hariri rinuncia all’incarico aprendo la strada a Mikati. Il nuovo premier incaricato è sulla carta un buon compromesso poiché cercherà di comporre un governo il meno ideologico possibile ed in più trova il favore della Francia che con il Presidente Macron si sta impegnando attivamente nel salvare il Paese. Mikati non è però una novità per la politica libanese, due volte premier e accusato nel 2019 di aver fatto guadagni illeciti attraverso presiti immobiliari, è l’incarnazione di quel sistema contro cui la gente manifesta in piazza da anni al grido di “killun y’ane killun” ossia “tutti vuol dire tutti”. Il tutto ha il sapore di un “tutto cambi affinché nulla cambi”: come ognuno dei governi precedenti la soluzione proposta dalla politica è sempre quella di perseguire i propri interessi più che un reale cambiamento chiesto a gran voce dal popolo e di cui il Paese ha disperato bisogno.
Che soluzione quindi?
Ovviamente la via più logica sarebbe quella delle riforme istituzionali ma il nodo da sciogliere è nel chi debba (o possa) farle. Sempre più osservatori ormai vedono l’unica possibilità nell’intervento della comunità internazionale: se non si riesce ad uscire dal pantano con le proprie forze per evitare il fallimento bisogna delegare il compito ad altri. L’individuazione degli attori esterni è fondamentale poiché sul piccolo Stato libanese si muovono i grandi Stati protettori delle confessioni del Paese: gli sciiti hanno come riferimento l’Iran, i sunniti storicamente legati alle monarchie del Golfo ora cominciano ad essere attenzionati dalla Turchia mentre i Maroniti sono storicamente protetti dalla Francia con Israele attento osservatore esterno. Affinché il Libano non si trovi nuovamente dilaniato in sanguinose guerre interconfessionali come in passato è opportuno cercare la soluzione che rispetti quella che Patriarca Béchara Raï chiama “neutralità attiva” che deve coniugare pluralismo, dialogo e allontanamento delle interferenze di altri Stati. Il sogno del Patriarca è stato rilanciato dalla Francia che si è fatta promotrice di un tentativo di soluzione attraverso la conferenza internazionale sul Libano del 4 agosto 2021. Qualunque sia la soluzione per aiutare il Libano contano la rapidità e l’efficacia dell’azione: per riagganciarsi alla metafora iniziale, il rischio che i materiali vulcanici e le ceneri incandescenti uscite con l’esplosione del vulcano libanese stiano per ricadere al suolo e ricoprire il Libano, come lo fu per Pompei, è concreto.
La domanda che a questo punto gli analisti politici si pongono è se la crisi in atto possa fungere da detonatore e trasformare il Libano in un nuovo campo di battaglia tra le potenze che ne hanno in mano la sorte e che si sono già recentemente combattute in Siria.
Lo vedremo a conclusione dei lavori della conferenza internazionale patrocinata dai francesi, preceduta da un susseguirsi di dichiarazioni e moniti non rassicuranti, quale quello del ministro della Difesa israeliano, Benny Gantz, che ha detto testualmente “Non permetteremo che la crisi sociale, economica e politica in Libano si trasformi in una minaccia alla sicurezza di Israele”.