Gira, rigira: dopo quasi quattro anni di guerra, migliaia di morti da entrambi le parti, dolorose distruzioni di ogni forma di infrastrutture civili (dagli ospedali ai semplici condomini) di danni stimati per oltre 500 miliardi di euro (quasi un terzo del Pil italiano); la palla è tornata nelle mani di Vladimir Putin. Spetta ancora a lui decidere le sorti del conflitto. Sarà pollice verso o rivolto verso l’alto, come negli antichi giochi del Colosseo che decidevano la vita o la morte dei gladiatori.
Ancora oggi, dopo il vertice di Anchorage che ha dato centralità alle rivendicazione della Russia. Non più potenza solo regionale, ma protagonista piena nel definire i destini del mondo. Ancora oggi, non è chiara quale potrà essere la risposta del nuovo Zar. Laconici i commenti e le risposte fornite. Il Cremlino è disponibile ad elevare la composizione della delegazione chiamata a dirimere il problema. Senza perdere di vista, naturalmente, quel vecchio refrain di una pace possibile, solo dopo aver rimosso le cause originarie del conflitto.
Lo stesso Donald Trump, che gran parte della stampa internazionale aveva dipinto come il più sincero amico di Putin, è costretto a prendere atto del gioco della diplomazia russa e minacciare ritorsioni. Che questa volta hanno tuttavia un sapore diverso rispetto al passato. In precedenza si poteva minacciare e subito dopo perdonare. Oggi, invece, dopo Anchorage ed il successivo vertice di Washington con Zelensky e gli Europei, ripetere quello schema sarebbe solo la dimostrazione di un’impotenza che difficilmente il Presidente pro – tempore degli Stati Uniti potrebbe permettersi.
Ci sono quindi tutte le condizioni per far poter sperare nel “game is over” (fine del gioco). Tutti gli occhi del Mondo sono, infatti, rivolti verso la Piazza Rossa di Mosca. Ed è difficile che Putin possa deludere coloro che fino ad adesso, in modo diretto o indiretto, lo hanno supportato. A partire dalla Cina, pronta ancora a giurare sul legame profondo di “un’amicizia senza limiti”, ma, al tempo stesso, desiderosa di ritrovare quella normalità che si richiede allo sviluppo degli affari. E che dire dei BRICS? Questo mondo è ancora più attento. Non ama l’Occidente, essendo parte del Sud globale. Ma se Putin dovesse insistere nella sua vocazione imperialista, non sarebbe certo quella sponda la spalla migliore su cui poggiare il fucile a difesa della propria autonomia. L’Occidente si sarà pure dimostrato insensibile al dramma dei “dannati della Terra”, ma almeno non li massacrava con il ricorso ai droni e missili balistici.
Considerazioni di semplice buon senso che dovrebbero ispirare un cauto ottimismo. Ma purtroppo non è così. Putin non è un moderno. Non appartiene nemmeno alla scuola di Deng Xiaoping, il fondatore della Cina di oggi. È un uomo del KGB, che crede solo nella dura logica militare. Da questo punto di vista è più un uomo dell’800, quando le cannoniere solcavano il Mondo e definivano i confini dei singoli Stati vassalli. Se non fosse stata questa la mentalità, non avrebbe abbandonato il G8, in risposta ad una crisi – quella del 2008 – nata negli Stati Uniti e diffusasi, come una pandemia, in tutto il Pianeta. La Cina, tanto per fare un esempio, di fronte a quegli stessi avvenimenti si era limitata a cambiare l’asse della sua politica economica: riducendo il peso delle esportazioni, per puntare con più forza sullo sviluppo del mercato interno.
Ma la Russia di Putin non era e non è in grado di determinare simili cambiamenti. La sua struttura di comando – la cosiddetta “verticale del potere” – è costituita da un’oligarchia che trova il suo principale elemento di sostegno economico nello sfruttamento di risorse naturali, soprattutto energetiche (carbone, gas e petrolio), indispensabile per garantirle una vita da nababbo. Non solo all’interno del Paese. Quei 300 miliardi di euro, che sono stati sequestrati in Europa, nei vari depositi bancari appartenenti al Gotha della finanza russa, rappresentano quasi il 50% delle riserve del Paese. Risorse dirottate all’estero, anche a costo di frenarne lo sviluppo complessivo.
L’esistenza di queste differenze inducono al pessimismo. Se Putin non avesse a disposizione il lascito nucleare della vecchia Unione Sovietica, sarebbe come uno di quei produttori di petrolio, senza la lungimiranza di un’Arabia Saudita, decisa a rompere con una specializzazione mono culturale. Ovviamente, nel medio periodo, una simile prospettiva non può che risultare perdente. Non si possono portare indietro le lancette della storia. Ma finché l’Occidente non avrà ritrovato un nuovo equilibrio, ricalibrando il peso dei vari Paesi, (soprattutto quello tra gli Stati Uniti e l’Europa) il peso del semplice esercizio muscolare può fare la differenza e consentire a Putin di avere un ruolo maggiore rispetto alle sue stesse capacità militari. Come del resto l’invasione dell’Ucraina ha reso evidente.
Per limitare i rischi è necessaria, pertanto, una grande lungimiranza. Non cedere oggi più di tanto, per poi non essere costretti un domani – quando i rapporti di forza saranno cambiati – a reclamarne la restituzione. Un esercizio che potrebbe essere reso più difficile dal lavorio che gli amici di Putin svolgono nei principali Paesi occidentali. Specie quando questo lavorio assume la forma del finto pacifismo. Che in Europa ha un duplice connotato: è di destra, ma anche di sinistra. In un gioco di specchi che, in passato, ha prodotto alleanze a geometria variabile. Fino ai massimi vertici dello Stato.
Lottare, quindi, contro queste forme di collateralismo assume una particolare valenza. Per fortuna molti degli argomenti, utilizzati in passato a favore della Russia, sono stati superati dai fatti. Oggi è sempre più difficile sostenere che Putin ha avuto ragione nell’invadere l’Ucraina perché provocato dal l’espansionismo della NATO. Come se a combattere con l’esercito invasore non fossero anche miliziani provenienti da altri Paesi, alleati storici, come i coreani del nord, del vecchio blocco comunista. Poi ci sono le reminiscenze storiche.
Una tesi accreditata ritiene che l’Ucraina non sia mai stata un’entità indipendente, ma una semplice regione di Santa madre Russia. Il suo stesso idioma altro non sarebbe che un semplice dialetto russo. Lingua che ora Putin vorrebbe ripristinare come una delle due ufficiali. Fosse così ci troveremmo di fronte al ripetersi di un fenomeno che ha sempre caratterizzato il predominio russo: come fu nel 1956 con la rivolta ungherese o nel 1968 con la Primavera di Praga. Con una differenza, tuttavia, rappresentata da quattro anni di guerra, migliaia di morti, e la nascita, qualora non vi fosse stato in precedenza (tesi evidentemente assurda) di un sentimento nazionale, il cui eroismo arricchisce le pagine di tutti coloro che hanno lottato, combattuto ed infine vinto per la libertà e l’indipendenza dei popoli.