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Convergenze parallele anti Conte fra Renzi e Salvini?

Che cosa divide e che cosa unisce Matteo Renzi e Matteo Salvini. Il corsivo di Paola Sacchi

 

Sulla cosiddetta crisi del Papeete esiste ormai una vasta “letteratura”, piena di gratuiti sfottò nei confronti di Matteo Salvini. Ma c’è un fatto che, piaccia o no anche agli stessi personaggi diversi tra loro per storia, collocazione politica italiana e europea, unisce i due Matteo: entrambi si sono ritrovati in rotta di collisione rispettivamente con il premier Conte/1 e Conte/2 su quella sorta di linea Maginot che divide l’Italia della crescita, dello sviluppo economico da quella grillina della “decrescita felice”, del no alla Tav e alle grandi opere.

E fu proprio il no pentastellato alla Tav (sul quale, come raccontarono a chi scrive autorevoli fonti leghiste, una notte a sorpresa si sarebbe allineato lo stesso premier spiazzando i salviniani) il vero detonatore della crisi dell’esecutivo giallo-blu. Tant’è che già a luglio un esponente di rango di Via Bellerio a chi scrive disse lapidario che era finita e che solo ormai “il capitano” doveva decidere i tempi. Salvini poi staccò la spina, come si sa, a ridosso di Ferragosto. E fece, se ben ricordiamo, non al Papeete, ma subito dopo a Pescara in un affollato comizio il celebre e contestato ancora oggi discorso sui “pieni poteri”. Un’uscita non felicissima che non spiegò appieno l’annoso problema della necessità di maggiori poteri decisionali del premier. Tema che voleva essere in realtà il vero nocciolo di quel discorso. Ovvero, quella più efficace capacità di scelte da parte delle istituzioni, di cui si dibatte da Bettino Craxi a Silvio Berlusconi allo stesso Matteo Renzi.

L’uscita salviniana, in particolare sulla questione del controllo dell’immigrazione, prestò così oggettivamente il fianco allo stesso Renzi che per mesi ne ha fatto motivo di sfottò. Per giustificare anche così quel governo del tutti contro Salvini e il centrodestra, il vero limite di fondo di quell’operazione che sta mostrando tutte le sue profonde crepe. Ma il discorso principale del leader leghista, oggettivamente poi anche sfavorito, nella sua richiesta di elezioni, dalla scelta di restar fuori dalla cosiddetta maggioranza “Ursula”, dove invece gli stessi grillini votarono per la presidente della Commissione Ue, verteva sulla denuncia della paralisi di azione degli alleati pentastellati. Salvini attaccò: “Bloccano tutto, bloccano le grandi opere, paralizzano il Paese, lavoro e occupazione”.

Non erano ancora in quell’agosto del 2019 tempi di Covid. Ma la pandemia ha poi drammaticamente accentuato il vecchio vizio di origine della filosofia della “decrescita felice”. Se si vanno a leggere le richieste dell’altro Matteo (Renzi), tranne il Mes sanitario, sul quale la Lega è nettamente contraria, si ritrovano a cominciare dalla necessità delle grandi opere proposte molto simili a quelle che fece Salvini e con lui l’allora sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Giancarlo Giorgetti. Nelle richieste renziane c’è anche la revisione di quel reddito di cittadinanza da sempre inviso alla Lega che però dovette accettare nel “contratto” in cambio di quota 100. Ma a parte anche questo, la  filosofia di base pro crescita converge.

E tutto si può dire alla Lega di ieri e di oggi tranne che di essere un partito contro lo sviluppo economico. Ora se questa oggettiva convergenza di intenti su questioni dirimenti, tanto più per un Paese come il nostro la cui economia è stremata dal Covid, potrebbe portare alla soluzione di un War Cabinet, governo semitecnico per l’emergenza con Mario Draghi o qualche altra personalità del genere, è tutto da vedere. Intanto, per il semplice fatto che Renzi non ha ancora (almeno fino a ieri sera, si parla di questo pomeriggio) ritirato la sua delegazione al governo.

E naturalmente ci sono altre forze decisive in campo, prima tra tutte il Pd che sembra inseguire la soluzione del Conte/ter con i “responsabili”. Cosa ieri sera in tv chiaramente detta da Goffredo Bettini, l‘influente consigliere del leader dem Nicola Zingaretti, che ha esplicitamente fatto un invito a settori di Forza Italia. Ipotesi però contro la quale si è già nettamente espresso Antonio Tajani, il numero due di Silvio Berlusconi. Posizione ribadita dalla capogruppo azzurra alla Camera Maria Stella Gelmini. Ma ieri sera in tv lo stesso Salvini, dopo aver sottolineato che le elezioni sono la via maestra, tanto più che si faranno nonostante la pandemia in molti altri Paesi, non ha escluso come subordinata quella di “un governo alternativo su 5 punti”. Insomma un War Cabinet, come tale a tempo. Ipotesi sulla quale però la presidente di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni si è sempre detta contraria.

Il “film” della crisi è appena iniziato. Ma una cosa è stata fatta trapelare dal Colle: no a maggioranze raccogliticce con responsabili, tanto più con numeri ancora più risicati di quelli di ora in Senato, al posto di quelli renziani. E soprattutto no a vuoti di potere, a maggior ragione in piena pandemia e un Recovery plan da approvare ora in parlamento. Resta quella discriminante tra due opposte filosofie su crescita e decrescita che per curioso contrappasso della politica hanno visto e vedono oggettivamente dalla stessa parte in governi diversi i due Matteo scontrarsi con Giuseppe Conte. Il premier che venne indicato dai Cinque Stelle.

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