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Erdogan

Vi racconto come si dividono gli Stati Ue sulla Turchia

Il corsivo di Teo Dalavecuras su Ue, Turchia e non solo

Si avvicina la data del prossimo Consiglio Europeo per gli Affari Esteri che dovrà (dovrebbe) prendere una decisione sulla questione delle sanzioni alla Turchia, che, nel nome della propria proiezione di potenza sta trasformando il Mediterraneo orientale in zona di operazioni militari (ciò che non le impedisce, nel frattempo, anche di condurre e vincere Blitzkrieg come quella, a fianco dell’Azerbaijan. nel Nagorno Karabakh).

Nei primi giorni di dicembre l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, buona ultima, ha condannato la trasformazione di Santa Sofia di Costantinopoli, la più grande basilica cristiana dalla sua inaugurazione  nel 537 d. C. sino al XVI secolo, in moschea, definendola “inaccettabile” e “incomprensibile”.

La notizia non ha fatto sensazione ma, naturalmente non è sfuggita a Recep Tayyp Erdogan. Il Presidente turco, tanto per chiarire il peso che dà alle prese di posizione del Consiglio d’Europa, custode europeo dei diritti umani e dello stato di diritto (di cui peraltro anche la Turchia fa parte), si è affrettato a donare a quella che dallo scorso luglio si chiama Ayasofya-i Kebir Cami-i Serifi una targa recante alcuni versi del Corano e, in calce, la seguente dicitura: “Offerta a Ayasofya-i Kebir Cami-i Serifi da Recep Tayyip Erdogan”.

Non sorprendentemente, la scarsissima eco della « condanna » dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa ha fatto sì che anche la pur tempestiva e beffarda risposta del sultano di Ankara sia passata inosservata, se si eccettua la stampa turca e quella ellenica. Sicché Erdogan ha dovuto mobilitare il suo ministro degli Esteri per riscaldare il clima in vista del prossimo vertice europeo. Ieri Mevlüt Çavuşoğlu infatti si è premurato di dichiarare quanto segue: “È ora che la Ue prenda una decisione sulla sua relazione con la Turchia. Da leale mediatore, la Ue può contribuire alla soluzione dei problemi. O continuiamo la collaborazione avendo presenti i reciproci vantaggi in molti campi come le migrazioni, l’Unione Doganale e la liberalizzazione dei visti, oppure l’Ue, schierandosi a fianco di due stati-membri “viziati”, oggi sostenuti anche dalla Francia, prenderà decisioni sbagliate, e le tensioni continueranno. Queste decisioni, indipendentemente dalle sanzioni o da qualsiasi altra cosa, non contribuiranno alla soluzione dei problemi”. Superfluo precisare che i due stati-membri “viziati” sono Grecia e Cipro. Il messaggio di Ankara all’Ue è duplice e chiarissimo in entrambi gli aspetti: 1. Risparmiatevi la fatica di recitare la parte di una realtà geopolitica coesa perché tanto non ci crede nessuno; 2. Non ci basta che continuiate a rinviare la decisione sulle sanzioni: anche se non potete esplicitamente abbandonare Grecia e Cipro al loro destino dovete quanto meno sbloccare il processo di ammissione della Turchia nell’unione doganale e la liberalizzazione dei visti.

Nel frattempo a Bruxelles si sta cucinando l’ennesimo compromesso. Per il momento, vicini alla posizione dei greci e dei ciprioti si trovano, oltre alla Francia, Austria, Lussemburgo, Slovenia, Slovacchia, Belgio, Irlanda e Danimarca. Sul fronte contrario alle sanzioni alla Turchia è schierata anzitutto la Germania, ma anche Italia, Spagna e Malta (per quanto riguarda Spagna e Italia, uno dei motivi dell’allineamento su una posizione filo turca sarebbe la forte esposizione dei rispettivi sistemi bancari con la Turchia, 20 miliardi per l’Italia e 62 per la Spagna, ma è ovvio che questa è solo una delle motivazioni del governo italiano e spagnolo). Quanto alla Polonia e all’Ungheria, anch’esse decisamente schierate per il “no” alle sanzioni, la loro scelta ha il sapore di una specie di “caparra” versata alla Germania in vista del raggiungimento di un onorevole compromesso sulla questione della “clausola dello Stato di Diritto” per l’erogazione dei fondi europei.

In tutto questo balletto, verrebbe da dire che la buona notizia è che la Germania (ancora) di Angela Merkel ha trovato, da qualche parte, il coraggio di resistere al diktat di George Soros: da settimane il “finanziere-filantropo” martella attraverso i media a lui vicini due messaggi: 1. L’Europa deve emettere titoli di debito irredimibili; 2. l’Europa, in nome dello Stato di Diritto, deve cacciare Polonia e Ungheria.

A parte gli scherzi, la sola cosa certa è che il processo di frantumazione europea va avanti, alla grande, ma di questo non c’è davvero motivo di stupirsi in un mondo di nuovo caratterizzato da conflitti tra potenze regionali. Come ha ricordato recentemente Pascal Couchepin, prestigioso leader elvetico degli scorsi decenni, tenace assertore del modello politico svizzero fondato sul compromesso, “quando si è in guerra non ci si può organizzare secondo i canoni del federalismo e della democrazia diretta”: come dire che ci sono momenti nel quale uno stato sovrano, per quanto articolato in singole entità giustamente gelose della loro autonomia, deve esercitare il potere di ultima istanza. Ma in Europa sovranità dell’Unione è un’espressione blasfema, figuriamoci se potrà mai essere un progetto politico.

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