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Come i populisti rottamano la vecchia politica ideocratica

"Ocone’s corner", la rubrica settimanale di Corrado Ocone, filosofo e autore del recente saggio “La cultura liberale - Breviario per il nuovo secolo”

Son passati sei mesi dall’insediamento del governo presieduto da Giuseppe Conte, è stata superata con non poche difficoltà la boa rappresentata dalla legge di bilancio, che è giunta all’approvazione dopo non pochi compromessi, l’opposizione è ridotta all’osso senza un’idea o un programma, eppure i nuovi leader al potere continuano ad autorappresentarsi come gli uomini del cambiamento che si oppongono ai “poteri forti” e alle vecchie e corrotte cricche di potere.

C’è pure chi, dati alla mano, ha dimostrato che, oltre la retorica di facciata, il governo si pone invece lungo una linea di sostanziale continuismo nella gestione del potere. Il che, ammesso e non concesso che sia vero in generale, poco significa dal punto di vista delle classi dirigenti.

Non è dubbio che oggi sia in corso, infatti, un poderoso tentativo di ricambio, non solo generazionale, delle élite del potere italiano. Il che, detto per inciso, non dovrebbe essere visto di traverso in un’ottica liberale.

Quel che qui voglio sottolineare o portare all’attenzione è però un altro elemento, di solito poco considerato. E cioè che il novismo, la voglia di cambiare e di porsi come rivoluzionari (in senso pacifico o violento poco importa), di voltare pagina, di “rottamare”, è un tratto caratteristico, e sicuramente il più comune, della politica come si è affermata e declinata in età moderna.

È questo il modo classico col quale si sono presentate ai cittadini tutte le aspiranti nuove classi dirigenti, comprese quelle “conservatrici”. Il Novecento soprattutto ha partorito grandi idee di trasformazione politica, sociale, persino umana. E non sono mancati i movimenti che hanno preso il potere e hanno governato proprio con la volontà di forgiare l’“uomo nuovo”.

Anche chi non è arrivato a questo estremo, anche chi pur muovendosi su questo terreno non ha abbracciato o giustificato gli orrori del totalitarismo, ha sempre avuto in mente sua come obiettivo da realizzare programmi, progetti, piani, di cambiamento più o meno radicale della società, e con essi si è presentato alle soglie del potere. Il potere era, secondo la retorica e l’autorappresentazione, soprattutto un modo per realizzare un’idea, un valore, un’etica.

Questa declinazione rivoluzionaria, sia in senso stretto, di matrice giacobina, ma anche in senso riformista, manca del tutto alle forze che hanno fatto oggi del cambiamento la loro bandiera, che hanno dato vita appunto al “governo del cambiamento”. A ben vedere la rivoluzione da loro proposta, e su cui hanno chiesto il consenso agli elettori e poi impegnato i primi mesi dell’attività legislativa, è limitata a interventi settoriali, anche se molto sentiti da fasce determinate dei cittadini. I quali alla politica non chiedono di cambiare il mondo, e nemmeno di migliorarlo in generale, ma solamente di provare a risolvere certi problemi che la vita quotidiana presenta loro o anche di abolire certi “privilegi” che ritengono insopportabili.

Il tutto in un’ottica assolutamente poco sistemica, senza nessuna grande idea alle spalle. Senza necessità che intellettuali più o meno organici, o competenti, dettino la linea. Casomai, gli esperti saranno arruolati poi come consulenti, una volta prese le decisioni di governo, ma solo per la loro attuazione. È sulla risoluzione di alcune questioni che si sono aggregate, nelle piazze (anche e soprattutto quelle virtuali) e poi nelle urne, blocchi di interesse cangianti, e su di esse gli uomini di governo sanno che saranno giudicati: il reddito di cittadinanza, il taglio dei vitalizi, il ripristino di alcuni “diritti” pensionistici, il controllo dell’immigrazione, la legittima difesa, ecc. ecc.

I novatori, chiamiamoli così, sono ben consapevoli delle difficoltà che incontra la loro azione, che riconducono alla persistenza dei vecchi grumi di potere. Sanno, e soprattutto vogliono far sapere, che il cambiamento sarà lento e irto di ostacoli: “non sono un Superman” ma “faccio cose concrete”, “non mi fermo”e “passo dalle parole ai fatti”, ha detto Matteo Salvini nel messaggio via Facebook agli italiani di fine anno. “Poco alla volta”, ha anche aggiunto.

Nessuna idea salvifica della politica c’è qui, e nemmeno la fretta dell’uomo del cambiamento di vecchio stampo, quello novecentesco. Il quale poi, se non riusciva a realizzare qualcosa o doveva scendere a qualche compromesso, non aveva problemi nel giustificarsi: coloro che aveva aggregato erano legati prima di tutto da un comune progetto ideale, o da una “fede” politica, e guardavano al fine e non ai mezzi tortuosi della sua realizzazione. In un’ottica novecentesca, può sembrare bizzarro che un governo sia nato da un “contratto” e non da una idea d’insieme della società. Bizzarro non lo è affatto invece se si pensa che la nuova politica lavora per obiettivi e non appunto per un ideale generale.

In conclusione, mi chiedo: piuttosto che alla vecchia categoria di “populismo”, che pigramente e superficialmente usiamo, non sarebbe forse ora di far riferimento al discrimine che ho cercato qui di delucidare per descrivere le nuove forze che battono alla porta del potere seppure in modo goffo e confuso, e spesso contraddittorio? E ancora: che qualcuno, forse non all’altezza fino in fondo del compito (la storia non segue mai e per fortuna le vie dritte), provi oggi a mettere in scacco la vecchia politica ideocratica, è davvero e del tutto un male? E ci si può chiudere a riccio, invece di cercare di capire e poi dire e fare la nostra sicuramente con più consapevolezza e cognizione di causa?

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