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Hong Kong

Come gli economisti scrutano le tensioni Usa-Cina su Hong Kong

Secondo economisti sentiti da CNBC, nello scontro Usa-Cina su Hong Kong c'è una seria minaccia ai mercati globali, già in fibrillazione il negoziato commerciale fra Trump e Xi. L'articolo di Marco Orioles

Dopo aver assistito mordendosi la lingua all’escalation della violenza nelle strade di Hong Kong, gli Stati Uniti hanno deciso di passare all’attacco. I due bill firmati mercoledì da Donald Trump, almeno, marcano il passaggio degli Usa dal campo degli spettatori a quello dei protagonisti di una crisi che non accenna a sfumare e sta anzi mettendo in serie difficoltà il presidente cinese Xi Jinping.

Il problema dell’Hong Kong Human Rights and Democracy Act e dell’altro provvedimento di legge passato alla firma di Donald Trump dopo aver incassato un sostegno bipartisan al Congresso è che, da ora in poi, la questione di Hong Kong esce di fatto dalla sfera delle vicende interni cinesi per proiettarsi nel palcoscenico delle relazioni internazionali e, in particolare, sullo sfondo del braccio di ferro tra Washington e Pechino sui commerci.

E qui risiede un problema di dimensioni colossali segnalato da alcuni economisti ascoltati l’altro ieri da CNBC, che nello scontro Usa-Cina su Hong Kong intravedono una seria minaccia ai mercati globali, già in fibrillazione per un negoziato commerciale, quello tra la superpotenza n. 1 e la sua rivale asiatica, che non vede ancora la luce in fondo al tunnel malgrado mesi e mesi di sfibranti trattative.

Il più cupo di tutti è Holger Schmieding, capo economista di Berenberg, che nelle due leggi firmate mercoledì da The Donald sul caso di Hong Kong intravede i segni del “più grande rischio geopolitico” per i mercati globali.

Se infatti, argomenta Schmieding, Pechino reagirà alle ingerenze americane in modo piccato, impugnando il bastone contro i manifestanti e reprimendo nel sangue la loro protesta, “allora diventerà pressoché impossibile per gli Usa concludere un accordo commerciale con la Cina”.

Il risultato di un intervento dei carri armati cinesi nell’ex colonia britannica sarebbe dunque catastrofico perché, rimandando sine die la risoluzione della controversia tra i due rivali, le attuali tensioni sui commerci innescate dalla guerra dei dazi tra Washington e Pechino non solo non rientrerebbero, mantenendo insopportabilmente elevato il grado di incertezza tra gli operatori economici, ma sarebbe pressoché inesorabile – sempre a detta dell’economista – il “prolungamento della flessione industriale globale causata da quelle stesse tensioni sui commerci”.

E Schmieding tutto sembra essere fuorché una Cassandra. Per accorgersene, basta scorrere i testi delle dichiarazioni infuocate rilasciate dalle autorità cinesi dopo che Trump ha firmato i due bill. Parole che oltre a tradire nervosismo, lasciano intendere quanto si stia esaurendo la pazienza di Pechino verso una crisi che è ormai sfuggita al suo controllo e che sta assumendo ogni giorno di più lo spessore di un dramma internazionale in cui alla Cina è riservato lo sgradevole ruolo del tiranno.

Così, il Ministero degli Esteri cinese l’altro ieri ha denunciato le “sinistre intenzioni” e la “natura egemonica” degli Usa, evidentemente restii a farsi gli affari loro, mentre le autorità di Hong Kong hanno espresso “ferma opposizione” nei confronti di due leggi che rappresentano “un palese intervento negli affari interni” dell’ex colonia.

Naturalmente,  l’ultima parola  su ciò che accadrà ora ad Hong Kong non è detta, e persino Schmieding si vede costretto a definire “improbabile” lo scenario di un massacro in stile Tienanmen. “Al momento”, osserva l’economista, “il comportamento cinese a Hong Kong suggerisce che Pechino è chiaramente consapevole del rischio” insito in una sua eventuale scelta marziale. Per Schmieding, insomma, la Repubblica Popolare sembra ancora concentrata sulla “priorità di salvaguardare la sua economia dalle conseguenze di una guerra commerciale prolungata”.

E Schmieding non è l’unico a pensarla così. Anche Ben Emons, di Medley Global Advisors, è convinto che le leggi americane su Hong Kong non incideranno sulle relazioni tra Usa e Cina, e che la ragionevolezza prevarrà in ambedue i campi.

Già un mese fa, tra l’altro, l’analista indipendente Fraser Howie aveva spiegato che atti inconsulti da parte della Cina a Hong Kong avrebbero comportato, oltre “alla fine di Hong Kong per come la conosciamo”, un costo pesantissimo per Pechino che ragionevolmente vorrà evitare.

Ferma restando l’imprevedibilità di Pechino come di Washington, la conclusione che trae Schmieding è rassicurante. “Sappiamo”, rimarca l’economista, “che gli Usa e la Cina (hanno posizioni diverse) sui diritti umani o la democrazia, e questa differenza non scomparirà – noi dobbiamo semplicemente riaffermarla di tanto in tanto, e la Cina sa bene che deve convivere con tutto ciò”.

A detta di Schmieding, insomma, quello che sta andando in scena in questi giorni tra la riva del Pacifico e quella dell’Atlantico è solo un gioco delle parti, nel quale il Paese leader del mondo libero fa il suo mestiere – tenere alta la fiaccola della libertà – e il suo principale rivale nel mondo fa altrettanto, preservando con le unghie e con i denti il proprio modello politico autoritario.

Per Schmieding, insomma,  l’attuale dialettica tra Cina e Usa su Hong Kong potrebbe rivelarsi niente più che un “modesto bisticcio” che non distrarrà i due contendenti dall’obiettivo principale: e l’obiettivo è rappresentato dalla firma di quel benedetto accordo commerciale con cui porre fine a oltre un anno di turbolenze economiche e finanziarie.

L’unico dettaglio di questa analisi che potrà far storcere il naso ai puristi della democrazia è che i valorosi combattenti della libertà di Hong Kong rischiano di apparire come mera merce di scambio tra i due titani. Un’amara considerazione cui l’economista cinico risponderebbe parafrasando le famose parole di Humphrey Bogart: è il mercato, bellezza.

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