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Come e perché Usa e Australia vogliono incastrare la Cina sul virus di Wuhan

Tutte le mosse degli Stati Uniti e dell'Australia contro la Cina per il virus

“A me sembra del tutto ragionevole (…) che il mondo voglia ora una valutazione indipendente di come tutto ciò sia successo così che si possano apprendere le relative lezioni e impedire che succeda ancora”.

Quando mercoledì il premier australiano Scott Morrison ha pronunciato queste parole, il suo Paese era già da qualche giorno nell’occhio del ciclone cinese.

Difficile d’altr0nde immaginare una reazione diversa dei sempre irascibili mandarini alle dichiarazioni pubbliche con cui Canberra aveva espresso l’auspicio di un’indagine indipendente sulle origini del Covid-19.

Non sorprendono insomma  le minacce di ritorsioni economiche arrivate immediatamente e a mezzo stampa dall’ambasciatore di Pechino in Australia Cheng Jingye (“Forse la gente comune si chiederà: ‘Perché dobbiamo bere vino australiano o mangiare carne australiana?”).

Né, francamente, stupisce la tempestiva presa di distanza dalla mossa australiana di Francia e Gran Bretagna, per le quali questo non è il tempo delle polemiche ma della sacra unione delle nazioni nella lotta al virus.

Ciò che colpisce, di questa bailamme, sono altre due cose. Che è andata in scena pochi giorni dopo le secche smentite del Ministero degli Esteri cinese e del vice-presidente dell’Istituto di Virologia di Wuhan, Yuan Zhiming, circa l’ipotesi che il flagello chiamato Covid-19 abbia avuto origine proprio nel laboratorio in cui lavora Zhiming a causa di protocolli di sicurezza non sufficientemente rigorosi.

Ma la cosa che più salta agli occhi è che la richiesta australiana è praticamente la stessa avanzata dall’establishment trumpiano, convinto più che mai che Pechino abbia qualcosa da nascondere e che su quell’ormai famigerato Istituto e sui pericolosissimi esperimenti biologici che vi si conducono vada urgentemente fatta chiarezza.

The Donald e i suoi, insomma, non sono più i soli a puntare il dito su Wuhan nel chiaro intento di mettere in imbarazzo Pechino e inchiodarla alle sue responsabilità.

Ma c’è un altro sviluppo avvenuto nelle ultime ore che segnala come la battaglia di Wuhan sarà lunga, sanguinosa e dagli esiti assolutamente non scontati. Uno sviluppo che si è palesato ieri sulla timeline Twitter dell’Ufficio del Direttore della National Intelligence Usa, Richard Grenell:

 

Della scarna dichiarazione partorita dal DNI, la parte che ha fatto più scalpore è ovviamente l’ultima: quella in cui si sottolinea che l’intera comunità dell’intelligence Usa si adopererà per sciogliere il nodo gordiano dell’origine del Covid-19 e, in particolare, per capire se il virus sia effettivamente scaturito da un contatto tra animale e uomo o sia invece il frutto di un “incidente di laboratorio”.

La stampa specializzata avrà il suo bel da fare ora per ricostruire la parabola di una fake news – quella circolata già a gennaio che voleva che il Covid-19 fosse stato ingegnerizzato a Wuhan e fosse dunque un’arma biologica – trasmutata nell’arco di poche settimane in ipotesi da esplorare (fatte salve le sfumature complottiste) e poi diventata il cuore di un lavoro serissimo affidato alle spie più potenti del mondo.

Ciò che è certo è che Trump ha ora tutta l’intenzione di cavalcare la questione senza più temere di essere accusato di dietrologie. Questo ieri era molto chiaro a chiunque abbia assistito alla sua conferenza stampa o letto i relativi resoconti sui media:

 

Cogliendo al volo il destro fornitogli da Grenell, il presidente ha lasciato intendere di essere convinto che dietro tanto fumo ci sia dell’arrosto. Questo, almeno, è quanto si deduce dalla risposta affermativa da lui fornita ad un reporter che gli aveva chiesto se gli fossero state presentare prove, documenti o quant’altro possa certificare l’ipotesi dell’incidente accaduto a Wuhan.

Quando poi un altro giornalista gli ha chiesto se avesse fiducia in quelle prove, la risposta è stata rivelatrice. “Non posso dirvelo. Non mi è consentito farlo”, ha affermato il capo della Casa Bianca prima di sottolineare che la Cina, se volesse, “potrebbe dirci” la verità.

La dichiarazione DNI, in verità, non aggiunge nulla di nuovo a quanto fosse già noto ai lettori dei giornali Usa. La prima notizia dell’avvio di una “full-scale investigation” da parte dell’intelligence a stelle e strisce sulle origini del Covid-19 la batteva infatti Fox News già il 17 aprile.

Esattamente dieci giorni dopo, Newseek rivelava addirittura l’esistenza di un rapporto segreto della Defense Intelligence Agency datato 27 marzo e intitolato “Cina: le origini della pandemia da Covid-19 rimangono sconosciute”: un documento che, secondo due funzionari d’intelligence al corrente del suo contenuto, aggiungeva alle ipotesi da passare al vaglio – oltre a quella di un’origine “naturale” – anche quella di un incidente causato da “pratiche insicure di laboratorio”.

Nulla più di un’ipotesi naturalmente – un non meglio precisato portavoce dell’intelligence precisava al magazine che le varie agenzie “non concordano su alcuna teoria” – se non fosse per un dettaglio messo nero su bianco nel rapporto DIA: almeno un terzo dei primi 41 casi di contagio registrati a Wuhan non era legato ad una “esposizione diretta” con il mercato degli animali vivi della città.

Passati due giorni, a fare lo scoop è la NBC, rivelando che la Casa Bianca ha trasmesso a tutte le agenzie di intelligence (dalla Cia alla NSA fino alla DIA) l’ordine di “analizzare tutte le intercettazioni telefoniche, i rapporti delle fonti umane, le immagini satellitari e altri dati al fine di capire se la Cina (…) abbia tenuto inizialmente nascosto ciò che sapeva sull’emergere della pandemia”.

NBC svelava tuttavia anche un dettaglio fondamentale: l’Ufficio di Grenell, stando almeno ad un suo funzionario, non aveva ricevuto alcuna istruzione in proposito dalla Casa Bianca (“We are not aware of any such tasking from the White House.”).

Che si trattasse della classica foglia di fico l’avrebbero confermato poche ore dopo tanto la CNN quanto il New York Times.

Per la prima, l’inchiesta avviata dagli Usa avrebbe già assunto rilievo internazionale, visto che le agenzie d’intelligence a stelle e strisce avrebbero condiviso le informazioni in loro possesso con gli alleati dei cosiddetti Five Eyes. 

Il New York Times si preoccupava invece – come suo solito – di mettere a nudo le pressioni che i più stretti collaboratori di Trump stavano facendo sulle agenzie d’intelligence affinché trovassero quanto prima la pistola fumante.

Il quotidiano, inoltre, si preoccupava di fornire qualche chiarimento su tanta frenesia riconducendolo al nome di un consulente informale del presidente, Michael Pillsbury. Le cui idee in merito all’inchiesta e ai suoi scopi sembrano molto chiare: si tratta di trovare quelle maledette prove non tanto per mettere in imbarazzo il nemico, quanto per metterlo alla sbarra.

L’idea, in poche parole, è inchiodare la Cina alle proprie responsabilità per poi chiedere i danni (come ha fatto capire lo stesso Trump questa settimana quando, durante una conferenza stampa, ha affermato di attendersi “sostanziosi” risarcimenti). Per il NYT, l’amministrazione si accingerebbe ad esigere da Pechino addirittura 10 milioni di dollari per ogni cittadino americano ucciso dal Covid-19.

Non avendo mai avuto in simpatia l’attuale inquilino della Casa Bianca, il New York Times ha pensato bene di condire il proprio articolo col commento di un ex membro dell’intelligence secondo il quale i trumpiani stanno facendo quello che nel gergo spionistico viene definito “conclusion shopping” – si tratta, per intendersi, di quello che fece l’amministrazione di George W. Bush quando usò disinvoltamente le proprie informazioni allo scopo di convincere il mondo che Saddam Hussein possedesse armi di distruzione di massa e nutrisse legami con al Qa’da (e che fosse dunque necessaria l’invasione dell’Iraq).

Una caccia alle streghe bella e buona dunque, con l’aggravante che la strega in questione non è un dittatore di una nazione minore ma la superpotenza n. 2 che ha già chiarito – citofonare a Scott Morrison – di non essere disposta a tollerare simili manovre.

Ma gli Usa, se è proprio necessario ricordarlo, non sono l’Australia. E si può scommettere che The Donald farà il tutto per tutto per ottenere una cartuccia così potente per spararla durante la campagna per le presidenziali, aggiungendola al suo già robusto elenco di litanie anti-cinesi che tanta fortuna gli procurarono alle elezioni di quattro anni fa.

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