Pare evidente che il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, stia diventando sempre più simile a un apprendista stregone incapace di gestire le forze che lui stesso ha scatenato. E questo è vero sia sul lato esterno del Russiagate in salsa italiana, con l’indagine Usa che si allarga, sia sul versante interno.
Cominciamo dagli Usa, dove il clima politico è stato incendiato ieri dalla notizia dell’arresto di due persone vicine a Rudolph Giuliani, legale di Donald Trump, a quanto pare coinvolte nel tentativo di Giuliani di raccogliere prove in Ucraina contro il democratico Joe Biden. Ma questa è tutta un’altra storia.
Intanto, però, è stata Fox News, la tv che ha dedicato enorme attenzione al caso italiano, a riferire che il procuratore John Durham ha ampliato l’arco temporale della sua investigazione fino a ben oltre le elezioni presidenziali di fine 2016, e quindi almeno alla primavera 2017, momento in cui scattò la nomina a procuratore speciale di Robert Mueller, l’uomo che ha indagato – invano – contro Trump. E così come Mueller chiese assistenza e documentazione a ben tredici paesi stranieri, anche Durham e William Barr hanno ritenuto di provare ad acquisire elementi altrove: dall’Italia all’UK, passando per l’Australia.
In un gioco di specchi, la controinchiesta Trump sull’eventuale collusione tra amministrazione Obama, campagna Clinton e manine straniere per “sporcare” l’allora candidato repubblicano (e futuro presidente) adotta le stesse modalità della (largamente fallita) inchiesta di Mueller sulla presunta collusione tra Trump e i russi. Così, fa capire la Washington trumpiana, hanno poco da lamentarsi i democratici e i nemici dell’attuale presidente.
Attenzione al lato italiano: andare al 2017 significa includere anche il governo Gentiloni e non solo l’ultimo semestre del governo Renzi (del quale Gentiloni era peraltro ministro degli Esteri). A questo punto si comprende meglio il nervosismo di entrambi (Renzi e Gentiloni) quando, un paio di giorni fa, Conte si fece sfuggire una frase dal sapore dell’avvertimento (“Era nostro interesse chiarire quali fossero le informazioni degli Usa sull’operato dei nostri servizi all’epoca dei governi precedenti”). Alcune ore dopo, Conte smentì, o attenuò la portata dell’affermazione, ma il messaggio era politicamente minaccioso: l’attuale premier stava facendo sapere ai suoi due predecessori che stava assumendo informazioni sui loro governi.
Intendiamoci bene: è vera la considerazione di chi teme che l’Italia si ritrovi stritolata nella rissa fra democratici e repubblicani nel corso della campagna del 2020; ma è abbastanza curioso che le stesse fonti, politiche e mediatiche, non facciano una piega rispetto all’ipotesi che ciò sia già ampiamente avvenuto, a parti invertite, nel 2016. Per favorire la Clinton e massacrare Trump.
Tra l’altro, tornando alle missioni romane degli esponenti delle agenzie Usa, è difficile derubricare a evento di routine (con la spiegazione: “era una visita già prevista da tempo”) anche la presenza a Roma del direttore della Cia Gina Haspel. La si ricorda in Afghanistan, nel pieno di difficilissimi negoziati con i talebani, o in Turchia a seguito dell’affaire Khashoggi, come ha ricordato il direttore di Atlantico Federico Punzi. Nonostante le smentite di maniera, è difficile credere che una personalità autorevolissima come la Haspel si sia scomodata per nulla, e non si sia a sua volta occupata del Russiagate, con i suoi imprevedibili riverberi italiani.
Resta un aspetto, certamente non ultimo per importanza, ed è la clamorosa irritazione del Quirinale. Spin riferibili a Conte avevano lasciato intendere che il Quirinale fosse stato informato delle mosse del premier. Puntuale è arrivata la smentita del Colle. E rimane un nervosismo palpabile alla vigilia della visita che Sergio Mattarella farà a Washington. Tutto avrebbe voluto il Colle tranne che essere infilato in questo caos. Sedersi di fronte a Donald Trump, e a un Trump eventualmente prima illuso e poi disilluso rispetto a un’eventuale collaborazione italiana, è un esercizio che non si augura a nessuno. Anche perché Trump è uomo noto, ben al di là delle formalità protocollari, per l’abitudine di porre domande chiare, dirette, non eludibili.