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Armin Laschet Cdu-Csu

Come Armin Laschet succederà a Merkel nella Cdu

Ecco idee, mire e relazioni di Armin Laschet, che punta a diventare il prossimo presidente della Cdu in Germania. L'approfondimento di Pierluigi Mennitti da Berlino

 

La ragione per cui Armin Laschet non ha ancora riposto nel cassetto i sogni di diventare il prossimo presidente della Cdu si chiama Jens Spahn. È l’alleanza con il ministro della Sanità, il politico più amato del momento, a tenerlo a galla e a proiettarlo ancora come favorito, nonostante tutto, nel congresso più bizzarro della storia politica tedesca: l’assise virtuale del 16 gennaio, con partecipazione e voto digitale da parte dei 1001 delegati. Una primizia per i partiti tedeschi: un congresso online è già stato consumato dai verdi, ma è la prima volta che per via digitale verrà eletto un nuovo presidente.

Laschet ora deve sperare che Spahn attraversi indenne le critiche piovutegli addosso nelle ultime settimane per il caos vaccini, e si presenti al congresso con la sua aura di consenso intatta.

I due hanno stretto un’alleanza di ferro e si presentano ai delegati per diventare presidente e vice. Quando l’annunciarono, in una conferenza stampa blitz a febbraio, la partita congressuale sembrava ormai chiusa. Troppo forte il blocco merkeliano, compatto attorno a Laschet, unito alla componente più conservatrice fedele a Spahn e non attratta dalle sirene di Merz. Gli interessi del duo coincidevano: bloccare il secondo tentativo di ritorno di Merz, dichiaratosi indisponibile a farsi ingabbiare in un direttorio dopo le dimissioni di Annegret Kramp-Karrenbauer. Con Spahn, Laschet copriva uno spazio politico a lui estraneo, quello conservatore. E il giovane ministro della Salute avrebbe scongiurato il pericolo che un’eventuale vittoria di Merz gli togliesse spazio vitale nei prossimi anni.

Poi è arrivato il covid-19, il congresso è stato rinviato e le carte in tavola si sono rimescolate. Laschet non ha fatto una gran figura nella gestione della pandemia: il Land da lui governato è stato il primo a essere colpito e per lungo tempo è stato l’hotspot delle infezioni in Germania. E anche quando poi i contagi si sono spostati altrove, a Laschet è rimasta appiccicata l’etichetta di chi non aveva mostrato caratura da leader. Nel corso della prima ondata ha interpretato una linea morbida verso le misure restrittive, da liberale qual’è ha cercato di tutelare i diritti di libertà dei cittadini e le necessità dell’economia: ma in quei mesi primaverili, i cittadini erano più disposti a seguire lockdown rigidi, così Laschet si è fatto oscurare dal bavarese Markus Söder, che come capo del partito gemello Csu non può contendergli la presidenza della Cdu, ma un’eventuale candidatura alla cancelleria sì.

Ecco, la cancelleria. Laschet muore dalla voglia di succedere ad Angela Merkel. Quando due anni fa venne eletta alla presidenza Kramp-Karrenbauer, lui, sibillino, assecondò l’idea che la guida del partito non dovesse automaticamente portare alla candidatura a cancelliere: a tempo debito, il partito avrebbe scelto chi avesse offerto maggiori garanzie di successo. Se vincerà il 16 gennaio, c’è da scommettere che cambierà idea. Ha già detto che ne discuterà con Söder, come con un pari grado. Nel suo linguaggio felpato significa che non ha alcuna intenzione di cedere a terzi. Né a Söder, né a Spahn, che sarebbero i candidati preferiti dagli elettori. Il suo problema sono infatti i sondaggi.

Per ambire al traguardo più grande, deve prima vincere il congresso Cdu contro Friedrich Merz e Norbert Röttgen. Anche qui i rilevamenti di opinione che circolano sulla stampa non gli sorridono. Ma si tratta di sondaggi tra gli elettori in generale (nei quali Laschet sfila addirittura all’ultimo posto), o al massimo tra i simpatizzanti del partito (dove galleggia comunque a debita distanza da Merz, il più quotato). Ma chi decide la partita sono i 1001 delegati, membri dell’apparato legati alle dinamiche del potere interno alla Cdu. E qui 20 anni di ininterrotta gestione merkeliana contano tanto, come si è già visto nel congresso di due anni fa, in cui Kramp-Karrenbauer superò in volata proprio Merz, grazie all’appoggio compatto del gruppo dirigente.

Laschet prova a recuperare smalto con un programma snello di 10 punti, presentato assieme a Spahn qualche giorno fa. Una traccia anche per la campagna elettorale prossima, Impulso 2021. L’indicazione dell’anno suggerisce che non si tratti di un programma dal respiro ampio come fu l’Agenda 2010 di Gerhard Schröder, l’ultima proposta riformistica che la Germania ricordi. Piuttosto di un piano a breve termine, per conquistare il partito e portarlo al voto. C’è un po’ di tutto: da una moratoria per gli oneri delle aziende sfiancate dalla pandemia, alla tolleranza zero verso criminalità ed estremismi (di destra e di sinistra). L’unico punto con un po’ di prospettiva è la promessa di istituire nel futuro governo un ministero per la digitalizzazione. Il decennio che si apre, dicono Laschet e Spahn, sarà quello della modernizzazione. Il che suona anche come una velata critica (o autocritica) alla lunga stagione governativa di Merkel: la realtà è che la Germania deve ancora rincorrere la trasformazione digitale che altri grandi e medi player globali hanno già intrapreso da tempo.

Il programma con cui Laschet si presenta al congresso ha un respiro intimistico e punta molto sul “core business” merkeliano, con qualche concessione all’ala conservatrice: unità nel partito, armonia tra le diverse componenti che dovranno tutte essere rappresentate ai vari livelli organizzativi, una buona dose di europeismo unita al principio del multilateralismo (rapporto atlantico ma anche dialogo con Russia e Cina), netta chiusura verso il populismo di destra di Afd. Su quest’ultimo punto, Laschet appare più credibile di Merz, al quale si imputa polemicamente la voglia di spostare il partito a destra. Laschet non ritiene che i voti di Afd possano e debbano essere recuperati: il rischio è di perdere quelli al centro conquistati con la politica di Merkel. La sua Cdu non inseguirà l’agenda dei nazional-populisti, terrà ferma la barra al centro: è l’unico modo per non farsi fagocitare.

Una linea che poggia su un punto di forza: la vittoria nel 2017 alle elezioni regionali del Nord Reno-Vestfalia, un Land chiave per gli equilibri politici tedeschi. Afd, che viveva in quel momento il suo momento migliore, si fermò al 7,4%. Dei suoi due avversari congressuali, nessuno può vantare un successo sul campo così benaugurante: non Merz, che non si è mai candidato alla guida di un Land, figuriamoci Röttgen, che nel 2012 perse proprio il Nord Reno-Vestfalia. Laschet lo ripete sempre, sornione: per guidare un partito dalla vocazione governativa bisogna pur saper vincere un’elezione.

Nato ad Aquisgrana nel 1961 in una famiglia originaria della Vallonia ed emigrata dall’altra parte del confine negli anni Venti del Novecento, Laschet è approdato nella Cdu a 18 anni, sulla scia di una formazione e militanza cattolica. Studi giuridici a Monaco e Bonn, quindi esperienze di giornalista freelance nei giornali cattolici della sua città. Nel 1989 entra in consiglio comunale, nel 1994 viene eletto al Bundestag, ma perde il seggio diretto nelle elezioni successive. Nel 1999 ritenta, questa volta con successo, la via parlamentare, ma in Europa. Gli anni al parlamento di Strasburgo rafforzeranno la sua inclinazione europeista, ma nel 2005 torna a casa per diventare ministro dell’Integrazione nel suo Land, il Nord Reno-Vestfalia. Gli affibbiano il nomignolo di “Armin il turco”, sfottendolo bonariamente per le sue posizioni aperte e tolleranti verso l’immigrazione. Resterà uno dei suoi tratti distintivi e Laschet sarà il più tenace sostenitore della politica delle porte aperte di Angela Merkel. Una posizione che non gli aveva impedito, qualche anno prima, di difendere da un attacco della stessa Merkel il socialdemocratico Thilo Sarrazin, autore di un libro che fece scalpore, critico verso l’immigrazione musulmana (“La Germania si distrugge da sola”).

L’unico altro punto di frizione con la cancelliera (di cui da otto anni è vice nel partito) è sulla politica energetica. Come esponente del Nord Reno-Vestfalia, il Land che ha segnato la storia mineraria della Germania, ha sempre considerato una fuga in avanti l’accelerazione imposta all’abbandono del carbone. Per il resto il suo motto è: nessuna rottura con l’era Merkel, ma continuità, armonia nel partito, coinvolgimento di tutti. L’unione con Spahn è un segno della sua capacità di creare alleanze e lo smalto ritrovato dalla cancelliera ai tempi della pandemia è un punto a suo favore nei giochi congressuali. Nonostante il recupero dei suoi contendenti, entra nel congresso digitale come il favorito. A febbraio compie 60 anni. Spera di festeggiarli come presidente della Cdu e di prepararsi a tendere la rete che intrappolerà i suoi nuovi contendenti interni alla cancelleria.

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