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Xi

Via della Seta, perché la Cina punta sull’Italia e perché gli Usa sbuffano. Parla Caracciolo (Limes)

Conversazione di Start Magazine con Lucio Caracciolo, analista di geopolitica, direttore di Limes ed editorialista del quotidiano la Repubblica

 

La notizia del giorno è la probabile, addirittura imminente, adesione dell’Italia – primo Paese del G7 a farlo – al maxi progetto infrastrutturale della Cina di Xi Jinping: la “Belt and Road Initiative” (BRI). Sono le famose “nuove vie della Seta” che si sostanzieranno in sei corridoi, cinque terrestri ed uno marittimo, tra Asia ed Europa, capaci di connettere la Repubblica Popolare al mercato strategico del Vecchio Continente e a quelli emergenti dell’Asia sudorientale, dell’Asia centrale, del Medio Oriente e dell’Africa.

Un progetto ambizioso, fiore all’occhiello del presidente Xi, con cui Pechino si candida a guidare una nuova fase della globalizzazione, questa volta con “caratteristiche cinesi”. Ma al quale non pochi guardano con sospetto, riconoscendovi l’imprinting di un preciso disegno geopolitico che mira ad assorbire intere regioni e paesi in una nuova sfera di influenza della Cina. La quale diventerebbe, così, il nuovo centro di un mondo riconfigurato secondo i desiderata, e le esigenze, del Partito Comunista Cinese.

I primi a suonare l’allarme sono, ovviamente, gli Stati Uniti.  I quali, nello stesso articolo del Financial Times che riportava ieri le dichiarazioni con cui il sottosegretario al ministero dello Sviluppo Economico, Michele Geraci, rivelava che il Memorandum of understanding con cui aderiremo alla BRI è in dirittura d’arrivo, consegnavano al nostro paese un duro monito, arrivato attraverso le parole di Garret Marquis, portavoce del National Security Council, organo della Casa Bianca che si occupa di minacce strategiche.

Nelle stesse ore, inoltre, fonti del Corriere della Sera portavano a galla le pressioni esercitate dagli Usa sul presidente del Consiglio Giuseppe Conte e sul sottosegretario di Palazzo Chigi Giancarlo Giorgetti affinché l’Italia non dia seguito al suo proposito di essere il primo paese del gruppo dei Grandi a partecipare alla BRI e non approfitti in particolare della visita nel nostro paese del presidente Xi, programmata per i prossimi 22 e 23 marzo, per apporre la fatidica firma.

Un dossier scottante che Start Magazine ha deciso di approfondire.

Ecco la conversazione con Lucio Caracciolo, direttore di Limes, la prima rivista italiana di geopolitica e fucina di analisti ed intellettuali che dissezionano i grandi trend strategici del nostro pianeta.

Cosa sono dunque, Caracciolo, le nuove vie della Seta, ovvero “una cintura, una strada”?

Rappresentano una strategia di globalizzazione vestita da progetto di promozione infrastrutturale marittima e terrestre, che ha il compito di collegare il mercato europeo a quello cinese e ad altri mercati asiatici. Un progetto con un chiaro sottotono geopolitico, che punta sulla valorizzazione del marchio Cina e sull’espansione dell’influenza cinese nel mondo, con particolare riguardo ai paesi toccati da queste rotte marittime e terrestri.

Un insieme di progetti, la BRI, nell’ambito dei quali il nostro paese dovrebbe ricoprire un ruolo privilegiato, nella sua qualità di sbocco delle vie della seta:  di qui l’importanza dei porti dell’Alto Adriatico, tra cui quello di Trieste.

Più che di ruolo per il nostro paese, parlerei di potenziale. Nel senso che sono vari anni che la Cina bussa alla porta italiana, poiché l’Italia si configura dal punto di vista geografico come un paese privilegiato, nel centro del Mediterraneo, ideale dunque per il collegamento tra le rotte marittime provenienti dall’Oceano Indiano via canale di Suez e poi dirette verso l’Europa centrale e la Germania. Potenziale, perché sinora l’Italia non è stata in grado o non ha voluto offrire vere sponde alla Cina.

E oggi?

Oggi, se veramente si firmerà questo memorandum, le cose procederanno diversamente. Lei ha citato Trieste, ma si potrebbe citare Genova, così come altri porti meno rilevanti, che potrebbero diventare dei perni del collegamento marittimo e ferroviario dalla Cina all’Europa. Trieste ha la caratteristica speciale di essere un porto franco, fondato 300 anni fa dagli Asburgo: ciò significa un vantaggio doganale notevole per chi vi sbarca o lo utilizza. Trieste è ben collegata alla linea Vienna-Monaco piuttosto che al resto dell’Italia. E poi Trieste ha da sempre una vocazione autonoma, di carattere anche geopoliticamente ambiguo fra Italia ed Europa di mezzo, e questo rappresenta da un certo punto di vista un vantaggio, ma anche un problema per l’Italia. Poi c’è un secondo capitolo della BRI…

Quale?

È il capitolo rappresentato dalle vie della seta digitali, ossia la penetrazione di cavi internet e data center. Su questo i cinesi puntano molto, in particolare Huawei, portatrice di una tecnologia 5G che le conferisce una posizione privilegiata rispetto agli americani. Questo crea però una tensione forte tra Italia e Usa, perché Washington teme che la Cina usi l’Italia come base di spionaggio.

E qui, dopo le opportunità che i progetti cinesi offrono all’Italia, si apre la questione delle minacce. Che gli Usa, sia per quanto riguarda BRI che per Huawei, ci ricordano ad ogni pie’ sospinto. Perché, concretamente, gli Usa vogliono che l’Italia si tenga alla larga dalla BRI e dalla Cina più in generale?

Gli Stati Uniti vedono nella Cina la minaccia numero uno al loro primato mondiale. Vedono nella tecnologia cinese nel campo di internet un rivale pericoloso, capace di penetrare anche i segreti degli Usa e della loro sfera di influenza imperiale, di cui noi facciamo parte. Quindi, se, come già sta avvenendo, Huawei apre dei centri di raccolta dati e internet in Italia, questo crea un malumore negli Stati Uniti.

Gli Usa lanciano l’allarme Huawei, ma non esibiscono le prove: non c’è la pistola fumante di un coinvolgimento dell’azienda di Shenzhen nello spionaggio di Pechino. Le famose “backdoor” che Huawei piazzerebbe nella rete, e che costituirebbero il cavallo di Troia con cui il regime cinese penetrerebbe nei nostri network, non le ha viste nessuno.

Noi sappiamo che da parte britannica, dunque di un alleato privilegiato degli Usa, è stata notata una relativa innocuità delle tecnologie di Huawei. E’ chiaro che, in questo campo, prove certe non ci sono, o se si hanno ciascuno le tiene per sé, magari sotto il tavolo. Quindi non mi aspetterei rivelazioni clamorose. Resta il fatto che gli americani, che abbiano ragione o torto, credono che Huawei sia un pericolo.

Un pericolo anche perché la legge cinese sull’Intelligence del 2017 dice chiaramente che Huawei è obbligata a collaborare col governo.

Ma questo è perfettamente normale, in tutti i paesi normali. Anche Google e Facebook collaborano con il governo americano.

Ma quali minacce specifiche pone la Via della seta al nostro Paese?

Nessuna in particolare. Il vero problema a mio avviso è che i cinesi potrebbero usare l’Italia per i loro fini esclusivi e mettano un’impronta troppo forte ed esclusiva sull’Italia. Questo significa evidentemente una minaccia per un paese come il nostro che fa parte della Nato ed è dentro la sfera di influenza europea dell’America. Quindi, come vediamo anche dalla cronaca, siamo sottoposti ad una serie di pressioni.

Peraltro, è la stessa Unione Europea a nutrire diffidenza nei confronti della BRI. Ricordo solo il report firmato da 27 ambasciatori in Cina dei paesi UE – tutti tranne quello ungherese – che l’anno scorso evidenziò tutte le perplessità europee sul progetto.

Per la verità alcuni paesi europei non secondari, come la Germania o l’Inghilterra, sono già in rapporti con Huawei ed hanno già rapporti piuttosto avanzati in campo tecnologico con la Cina. Credo che retorica e sostanza in questo caso non coincidono.

Secondo lei, il governo italiano sottovaluta i problemi intrinseci ai dossier BRI ed Huawei? Vede la possibilità all’orizzonte di uno scollamento nei rapporti tra Italia e Usa?

C’è un problema di dilettantismo, o se si preferisce di ignoranza. Questo è un governo composto da persone che non hanno mai avuto a che fare con questo genere di dossier, e dunque si sono fatte prendere alla sprovvista. Di Maio stesso pensava di poter firmare il memorandum of understanding sulla BRI nel novembre scorso (mentre era in visita istituzionale in Cina, ndr), ed evidentemente è stato fermato dagli americani.

E invece la Lega – al di là dell’entusiasmo di Geraci – che posizione ha su questi dossier?

Almeno finora, direi che sostanzialmente condivide la necessità di aderire alle Vie della seta. Non vedo dunque su questo una divaricazione tra M5S e Lega.

Gli Usa tuttavia, va detto, hanno un atteggiamento quanto meno ondivago. Perché se da un lato chiamano all’ordine gli alleati su Huawei e BRI, poi scopriamo dal New York Times che Donald Trump ogni tanto si consulta con i suoi consiglieri su come si possa far uscire l’America dalla Nato. Quindi non ci si può stupire se l’Italia non sappia più come orizzontarsi.

A parte le esercitazioni di Trump, è chiaro che gli Usa non hanno alcuna voglia di uscire dalla Nato. Anzi, negli ultimi tempi la loro presenza in Europa anche militare si è accresciuta.

A proposito dei nostri rapporti con il nostro maggiore alleato, cosa ne pensa della partecipazione del ministro degli Esteri Enzo Moavero Milanesi alla ministeriale di Varsavia convocata due settimane fa dagli Usa per dare vita ad una poderosa coalizione contro l’Iran? Un’iniziativa che è stata disertata, oltre che da Federica Mogherini, dai capi delle diplomazie di Francia e Germania, che hanno preso clamorosamente le distanze dal tentativo americano di coinvolgere l’Europa nella campagna di “massima pressione” nei confronti degli ayatollah. Le chiedo, l’Italia ha per caso aderito, senza strombazzarlo troppo, alla coalizione anti-Iran?

Non mi risulta. L’Italia mantiene una posizione piuttosto riservata. Comunque la posizione italiana non conta granché visto che il nostro paese, per sua scelta, non ha voluto partecipare ai negoziati con l’Iran sul trattato contro la proliferazione nucleare. Quindi siamo fuori da questo gioco.

Nella grande partita che è in corso nella Mezzaluna tra regimi come quello di Sisi e bin Salman da un lato e forze islamiste guidate da Turchia e Qatar dall’altro, noi stiamo facendo un gioco, come dire, altalenante, che non sembra nemmeno funzionale ai nostri interessi nazionali, come dimostra il caso della Libia, che ci vede sempre più isolati ed in difficoltà. Lei cosa suggerirebbe a questo governo?

Io penso che sia importante mantenere relazioni decenti con tutti, anzitutto con l’Iran, che è uno dei paesi veri della regione. A parte Teheran, io vedo solo Israele e Turchia come realtà consolidate. Il resto sono o famiglie allargate, vedi quella saudita, o regimi su cui difficilmente si può scommettere per il futuro. Segnalo anche i sommovimenti in corso in Algeria, che ci interessano da vicino.

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