A giugno, il principale produttore di semiconduttori con sede negli Stati Uniti, GlobalFoundries, ha annunciato che investirà 4 miliardi di dollari per espandere i suoi impianti di produzione di chip a Singapore, che – con il suo contesto fiscale e normativo favorevole, e con un pool di lavoratori competenti e altamente qualificati – è stata a lungo una destinazione attraente per gli investimenti nella produzione ad alto valore aggiunto.
Ma l’importanza di questo annuncio è determinata da un’altra ragione: gli Stati Uniti per la prima volta realizzano, cioè pongono in essere, una concreta diversificazione nella catena di approvvigionamento dei semiconduttori cercando di non dipendere più dalla Cina e in modo particolare da Taiwan. Infatti il 70% di tutta la produzione di fonderie avviene a Taiwan, a un paio di centinaia di miglia di distanza dalla Cina e ciò costituisce un rischio enorme per l’economia mondiale a causa della Guerra economica tra USA e Cina.
Concretamente questo consentirà di ridimensionare il ruolo di aziende leader come la TSCM di Taiwan, che ha saputo approfittare dello scoppio della bolla delle dot com.
Infatti la Charted Semiconductor di Singapore, nata nel 1987, ha tutti requisiti per trasformare Singapore in un centro di produzione globale per semiconduttori e componenti per computer. Lo dimostra il fatto nel 2000 Singapore aveva prodotto prodotti informatici ed elettronici per un valore di circa 84 miliardi di dollari consentendo di raggiungere il 52,7% di tutta la produzione manifatturiera del 2000.
Solo nel 2014 il settore elettronico a Singapore è riuscito a raggiungere livelli molto alti per un valore di 84 miliardi di dollari. Ma la vera svolta è cominciata nel 2018 quando i produttori di Singapore furono in grado di produrre computer e componentistica elettronica per un valore di circa 139 miliardi di dollari arrivando nel 2020 a rappresentare il 46% della produzione totale.
Insomma una ripresa rapida in pochi anni che dimostra l’enorme potenzialità di Singapore.