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Shujun Wang

Chi vincerà la guerra fra Usa e Cina

L'analisi dell'editorialista Guido Salerno Aletta

A dirla tutta, non fu proprio una grande strategia quella che Barack Obama ha condotto durante il suo secondo mandato presidenziale, quando cercò di mettere in piedi due trattati commerciali paralleli, il TPP sul versante pacifico ed il TTIP su quello Atlantico, cercando di coinvolgere tutti i Paesi delle due sponde ed in particolare l’Unione europea, per isolare la Cina da una parte e la Russia dall’altra.

Quando ci si lamenta della frattura del quadro delle relazioni internazionali multilaterali, addebitandolo all’attuale Presidente americano Donald Trump, si trascura che fu quella strategia a spezzare per la prima volta il sistema globale stabilito con il WTO.

Non è casuale, infatti, che il lancio nel 2013 da parte del Presidente cinese XI Jinping della strategia cinese volta a creare una Nuova Via della Seta, denominata inizialmente OBOR (One Belt, One Road), poi ribattezzata BRI (Belt & Road Initiative), rappresentò una risposta alla strategia di Barack Obama: il progetto di un nuovo Trattato Transatlantico con l’Unione Europea, che superasse anche le barriere non commerciali, fu infatti lanciato il 12 febbraio 2013 nell’ambito del “Discorso sullo stato dell’Unione”. Era già tutto concordato, visto che appena pochi giorni dopo giunse la risposta affermativa dell’allora Presidente dalla Commissione europea, Manuel Barroso.

La strategia geopolitica americana, dopo la crisi finanziaria del 2008, era coerente con quella commerciale: occorreva contemporaneamente destabilizzare l’intero Medio Oriente dopo la ritirata dall’Afghanistan e dall’Irak. Il rimescolamento delle carte nel Medioriente era necessario, creando fronti contrapposti, per isolare l’Europa ed il Mediterraneo dalla avanzata cinese. Il raddoppio del Canale di Suez, finanziato dalla Cina per consentire alle sue navi più capienti di evitare il periplo dell’Africa, era stato avvertito come una chiara minaccia.

Le primavere arabe erano un modo per creare instabilità: se l’America non era più in grado di presidiare quegli scacchieri, il conflitto così generato avrebbe reso impossibile a chiunque di insediarvisi.

Si è dunque conclusa, con una ritirata, la strategia americana iniziata nel 1978, quando contrastò l’invasione sovietica in Afghanistan finanziando i mujahidin islamici che vi si opponevano, e subito dopo quando non ostacolò in Persia l’avvento al potere dell’Ayatollah Khomeini. La scelta, per Washington era drammatica: o lasciava spazio all’estremismo religioso islamico, che si trasformò subito in un boomerang per l’intero Occidente considerato un Satana, oppure lasciava campo libero all’URSS.

LA RISPOSTA DEI BRICS

Seguirono immediatamente gli accordi tra i Paesi aderenti al Gruppo dei BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa), Paesi capaci di rappresentare dal punto di vista della popolazione e delle integrazioni delle rispettive capacità produttive un polo alternativo a quello della globalizzazione guidata dall’Occidente, ed in cui la Cina aveva trovato uno spazio eccezionalmente favorevole.

Nei Brics vivono 2,8 miliardi di persone, pari al 40% della popolazione mondiale: ma se ora producono già il 25% del prodotto globale, rappresentano in prospettiva una quota assai più grande per le potenzialità di crescita economica. Sono il mercato del futuro. La complementarietà è chiara: la Russia ha materie prime e prodotti energetici; la Cina ha terre poco fertili ma rappresenta la più grande fabbrica del mondo con circa 1,4 miliardi di persone disponibili a lavorare e pronte a consumare; il Brasile è un altro gigante continentale, che ha una terra fertilissima in grado di produrre derrate alimentari in quantità eccezionali; l’India, a sua volta, è già l’ufficio del mondo avendo una amplissima fascia di popolazione assai ben istruita nella gran parte delle discipline tecniche, con milioni di ingegneri che parlano correntemente l’inglese; il Sud Africa, infine, ha risorse minerarie non secondarie.

DONALD TRUMP E LA GUERRA COMMERCIALE ALLA CINA

Chiunque abbia seguito la campagna elettorale americana ricorderà nettamente la idiosincrasia assoluta dimostrata già allora dal candidato Trump nei confronti della Cina. Seguiva a menadito l’impostazione di Peter Navarro, un economista americano conosciuto soprattutto per i libri in cui prevedeva un conflitto mortale tra Pechino a Washington.

America First è slogan di Trump: riguarda per un verso il riequilibrio commerciale e per l’altro la necessità di evitare che si realizzi l’obiettivo del programma “Made in China 2025”, che ha l’ambizione di far diventare Pechino il Paese più avanzato al mondo nelle nuove tecnologie, ivi compresa l’intelligenza artificiale.

GUERRA DEI DAZI: AD OGNI BOTTA, DUE RISPOSTE

L’aumento dei dazi americani, volto a rendere più care le importazioni di merci cinesi, è stato lanciato in fasi successive, secondo una logica di escalation che avrebbe dovuto portare Pechino ad accogliere una serie di richieste di Washington, quali la apertura completa del mercato interno con la eliminazione della clausola di condivisione del know-how come condizione posta agli stranieri che vogliono produrre in Cina.

Ad ogni botta americana, in termini di nuovi dazi, la risposta cinese è stata duplice, ed asimmetrica: mentre da una parte ha cercato di colpire l’import americano gravandolo a sua volta di pesanti dazi, come nel caso della soia e del GNL (gas naturale liquefatto), dall’altro ha contemporaneamente diminuito i dazi sull’import proveniente da altri Paesi concorrenti degli Usa.

In questa maniera, Pechino conta di spostare il baricentro dei suoi mercati, sia di approvvigionamento che di sbocco: i Paesi produttori di generi alimentari o di prodotti energetici, come Argentina ed Australia, vengono ampiamente favoriti rispetto agli Usa; i Paesi manifatturieri in cerca di sbocco per le proprie merci, come quelli europei, riempiono lo spazio lasciato vuoto in Cina dall’aumento dei dazi sull’import dagli Usa.

I NUOVI BLOCCHI E LE LEZIONI DEL PASSATO

L’estensione del gruppo dei Paesi Brics ad altre realtà, come potrebbero essere la Argentina e la Turchia che sono stati Ospiti d’onore all’ultima conferenza, crea fratture e tensioni ulteriori nell’area che è sempre stata “allineata” agli Usa. Cuba, Brasile e Venezuela, altri esempi, sono stati sempre considerati da Washington come Paesi che si trovano nel suo “cortile di casa”.

L’Europa va per conto suo, come sempre divisa al suo interno. Prima della caduta del Muro di Berlino, è utile ricordarlo, la Germania occidentale cercava terreni di confronto con la DDR, la Germania Orientale, attraverso la politica della Ostpolitik. L’Italia era altrettanto divisa, con il PCI che votò contro la adesione alla Nato, e che negli anni mantenne un rapporto diretto con Mosca.

Lo stesso accade oggi. Ma mentre durante la Guerra fredda l’URSS era un interlocutore sostanzialmente ideologico, stavolta la Cina lo è dal punto di vista squisitamente economico. Tanti Paesi, ancora una volta, hanno al loro interno interessi contrastanti, politici ed economici, che li attraversano e li dividono.

Gli Usa sono il Paese più tecnologicamente avanzato, ma la sua tenuta socio-economica dipende in gran parte dal voto dei farmers e dalle loro esportazioni di prodotti agricoli, in competizione con economie enormemente più povere. Gli Usa hanno un buco produttivo nella manifattura, la Old Economy, che è stata abbandonata progressivamente a partire dagli anni Ottanta, e che è diventata il punto di forza di tutti i Paesi emergenti, principalmente la Cina. Washinghton ha un disavanzo commerciale enorme, ma mantiene soprattutto all’estero un altrettanto enorme softpower.

La Cina ha superato il ruolo di produttore a basso costo di prodotti tecnologicamente maturi, ma sconta la necessità di una crescita elevata per poter mantenere la coesione interna, basata su questa aspettativa. L’avanzo commerciale cinese si è andato assottigliando, in quanto le sue importazioni sono cresciute più velocemente delle esportazioni: il mercato interno è cresciuto. La BRI rappresenta per la Cina una strategia di lungo respiro, volta a creare una rete di rapporti diretti, così come lo sono già quelli con i BRICS: è qui che si gioca la partita.

Vincerà chi saprà mantenere (gli Usa), ovvero creare (la Cina), la rete più coesa di relazioni con l’estero, considerando ogni profilo. Senza svenarsi economicamente, perché questa fu la rovina dell’URSS, e soprattutto cercando di rappresentare un modello da imitare. Nessuno dei due contendenti sembra in grado di farlo: per questo sarà stallo, ancora per lungo tempo.

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Articolo pubblicato su teleborsa.it

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