Poco tempo fa il sindaco di Milano Beppe Sala ha annunciato in una intervista a Repubblica la sua adesione ai Verdi europei. Pur considerato molto vicino al Pd, era stato arruolato da Matteo Renzi dopo i risultati conseguiti come ceo di Expo 2015 a Milano, ma Sala non ha mai aderito al partito. Ciò non era un grande problema né ha impedito al gossip di arruolarlo, prima che la scelta cadesse su Enrico Letta, come uno dei potenziali nuovi leader del Pd o con incarichi al Nazareno, come ministro o come capo di una grande società pubblica. Sala non si è però mai esposto in prima persona limitandosi ad un generico “vedremo…”.
Sala, indiscusso candidato sindaco alle elezioni di Palazzo Marino con un profilo di amministratore di tutto rispetto, non ha mai costruito una sua aggregazione politica nel Pd né ha coltivato stretti rapporti con un leader nazionale, preferendo mantenere un profilo discreto di autonomia che, se gli lasciava margini di movimento, ne indeboliva il ruolo “romano”. È certo verosimile che si attribuisca la sua scelta politica “verde” come il tirarsi fuori da un partito che da una parte non gli aveva riservato grandi attenzioni e dall’altra rischiava di essere per lui sempre più scomodo e affollato da troppe correnti (come da lui dichiarato) nel quale faceva fatica a riconoscersi pienamente.
La sua adesione ai verdi d’Europa ha suscitato attenzione e forse qualche interrogativo ma non ha provocato alcuna esplicita reazione negativa da parte del Pd né a Milano né a Roma. In qualche modo se lo aspettavano ma non lo consideravano un evento catastrofico come invece sarebbe stata la decisione del sindaco di non ricandidarsi, cosa che avrebbe riaperto una partita assai complicata e ridato spazio e speranze ad un centro-destra che faceva (e fa) fatica ad individuare un candidato credibile.
Del resto Beppe Sala non ha mai fatto vita di partito nel Pd lasciando cadere i numerosi inviti ricevuti per partecipare a riunioni di partito. E, in ogni caso, rimane il candidato del Nazareno alle elezioni d’autunno per Palazzo Marino. In fondo la collocazione di Sala tra i Verdi potrebbe rafforzare il suo ruolo nella partita ecologico-ambiental-digitale mobilitando ingenti risorse che divengono strategiche in una città metropolitana come Milano e dando un forte contributo per la ripresa dell’economia di tutto il paese.
Qualcosa di rilevante è però accaduto negli ultimi giorni con l’emersione della candidatura a sindaco di Gabriele Albertini, ex inquilino di Palazzo Marino dal 1997 al 2006, ipotizzata inizialmente (e sorprendentemente) dal Corriere della Sera e fatta propria in prima persona da Matteo Salvini. Nel secondo mandato di Albertini, la Lega era entrata in maggioranza ma tra i due non vi erano mai stati per la verità eccellenti rapporti. Oggi, almeno per Salvini, i vecchi dissapori sono retaggi del passato che non hanno più ragione di esistere e la nuova candidatura di Albertini, che ha sempre tenuto un certo understatement (al punto di autodefinirsi amministratore di un grande condominio, cosa che non ha nuociuto alla sua popolarità), sarebbe un’ottima idea. E non solo perché rappresenterebbe una figura nota e riconoscibile da un elettorato come quello milanese che gli ha dato in passato grandi consensi ma soprattutto perché non è certo identificabile come “uomo della Lega” la quale, del resto, quando ha accentuato posizioni sovraniste non ha mai ottenuto grandi risultati elettorali in una metropoli che per la sua storia ha una vocazione riformista del “fare” e si sente integrata in una realtà europea di cui vorrebbe semmai accelerarne l’integrazione.
È più che naturale la convergenza su Albertini da parte Forza Italia e di Fratelli d’Italia, oltre che di altre forze moderate. I sondaggi fatti avrebbero confermato per l’ex sindaco buone prospettive in un ipotetico duello elettorale con Sala che nel frattempo ha presentato la sua lista civica e si propone di “costruire la prossima classe dirigente della città”. Gabriele Albertini è però rimasto sino ad ora in silenzio. Forse per riflettere bene su una candidatura che, oltre alla possibile soddisfazione di riaprire una partita che sembrava ormai chiusa con una marcia trionfale di Sala, gli comporterebbe, in caso di vittoria, impegni assai gravosi, che ben conosce per avere diligentemente svolto il ruolo in passato, e che lo priverebbe di quella privacy che pure apprezza molto. O forse attende di conoscere le reali intenzioni di tutti i partner per porre precise condizioni.
In ogni caso Repubblica si è portata avanti presentandolo, affiancato a Bassolino, come una “minestra riscaldata”, simbolo gerontocratico della decadenza inarrestabile dell’odierna offerta politica di un sistema commissariato dal governo Draghi. Albertini (classe 1950) è avvertito.
Per il resto chi vivrà vedrà, anche Sala del resto ci ha pensato un po’ prima di ricandidarsi.