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Movimento

Chi e come nel Movimento 5 Stelle mormora per il governo con il Pd. Il corsivo di Polillo

La realtà è che, almeno per ora, ha vinto il vecchio establishment. Quei poteri forti che i 5 stelle volevano combattere. Il commento di Gianfranco Polillo

 

Basta guardare al “blog delle stelle” per scoprire il profondo malessere che agita gli attivisti dei 5 stelle. Commenti amari, se non disperati, nonostante la presumibile accorta regia degli addetti alla comunicazione. Preannunci di abbandono. Soprattutto nessun entusiasmo, nemmeno da parte di coloro che si sono arresi alla realtà. Significativi i rimbrotti nei confronti di Luigi Di Maio, colpevole di aver dimenticato di citare “quota cento” e reddito di cittadinanza: la carta d’identità del precedente governo. La ministerializzazione del Movimento è stata fin troppo violenta per essere assorbita con la facilità della giravolta con cui Beppe Grillo è passato dalla teoria alla prassi (direbbero i marxisti). Dal “vaffa”, all’accordo con il nocciolo duro dell’establishment italiano.

Altro che “governo del cambiamento”. Quello che gli attivisti temono è soprattutto la banale normalità della restaurazione. E che non si tratti solo di semplici militanti. Dell’”uno vale uno” tanto strombazzato.

Nella gerarchia, che comunque si è prodotta all’interno del Movimento, ci sono anche coloro che hanno svolto funzioni dirigenti a dichiarare pubblicamente il proprio disincanto. Manifestano il loro dissenso autorevoli membri dell’Europarlamento. Ieri alleati di Nigel Farage, leader del partito nazionalista inglese, oggi alla ricerca di un’incerta collocazione, dopo il voto a favore di Ursola Von Der Leyen. La pupilla di Angela Merkel che ha preso il posto di Jean-Claude Junker e benedice da Palazzo Berlaymont, il quartiere bene di Bruxelles, la nuova santa alleanza.

Significativo l’intervento di Debora Billi, capo della comunicazione social grillina, che, in un post, riportato da alcuni giornali, si dichiara “finalmente libera”. Libera di abbandonare il Movimento al suo destino, preannunciando la sua fuoriuscita nel ricordo di Gianroberto Casaleggio, il cui pensiero ritiene sia stato, in qualche modo, tradito. Ed i suoi più stretti collaboratori messi al bando. “Nella scatoletta di tonno – commenta amara – ci abbiamo trovato la piovra, ed è stato più facile lasciarci abbracciare che combatterla”. Sentimento comprensibile, se si tiene conto delle facili promesse che preannunciavano la scalata dell’Everest e l’avvento di un nuovo mondo.

La realtà è che, almeno per ora, ha vinto il vecchio establishment. Quei poteri forti che i 5 stelle volevano combattere. Non sarà certo un caso se Dario Franceschini è il capo delegazione del Pd. Da sempre in politica. Risale al 1999 la sua prima folgorante ascesa a sottosegretario alla Presidenza del consiglio, nel secondo Governo D’Alema. Da allora, sempre una posizione di preminenza: più volte ministro, capo gruppo, vice segretario e poi segretario del partito. A coronamento di una lunga carriera iniziata nel 1977 come membro della vecchia Dc. Quando Luigi Di Maio non era ancora nato. Naturalmente nulla da eccepire. Avendo come prospettiva il divenire del processo storico. Ma una contraddizione evidente quando si predica la rivoluzione e di questa prospettiva si fa una pedagogia.

Stando a questi ultimi canoni, la stessa figura di Silvio Berlusconi acquista una luce diversa. E’ stato sempre un outsider, rispetto al vecchio gruppo dirigente italiano. Lo è stato da imprenditore, quando, contro tutti, erigeva il suo impero televisivo, sfruttando a suo favore le contraddizioni di un vecchio sistema. Quello che negava ogni valore alle televisioni commerciali. Che voleva mantenere il limbo dell’esclusivo predominio della Tv di Stato. Nel timore che i nuovi mezzi di comunicazione potessero, in qualche modo, incidere su un paternalismo culturale, entrato in contraddizione con lo sviluppo delle nuove tecnologie.

Non si dimentichi il blocco, voluto da Enrico Berlinguer ed Ugo La Malfa, all’ingresso del colore, nella speranza di perpetuare una condizione di minorità dell’Italia, rispetto alle analoghe esperienze internazionali.
Come negli affari, anche in politica, Silvio Berlusconi aveva mantenuto la sua alterità. Basti pensare ai turbolenti rapporti con Carlo De Benedetti, l’ostilità dei salotti buoni, l’atteggiamento di una parte della magistratura. Quella più legata alle componenti di sinistra. Non gli si perdonava il suo ingresso in politica. Un po’ perché non ritenuto degno rispetto ad una più antica tradizione. Un po’ nel timore che la sua discesa in campo potesse alterare a suo favore i rapporti nello stesso establishment. Gianni Agnelli, nume tutelare di quell’antico equilibrio, aveva operato sempre dietro le quinte, evitando ogni diretto coinvolgimento in ruoli di carattere istituzionale.

Con la nuova alleanza tutto ciò è nuovamente azzerato. Alle pulsioni “nuoviste” ch’erano pure presenti nel precedente governo, si sostituisce la calma di un’antica tradizione. Le acque del Mar Rosso, che si aprirono al passaggio di Mosè, si sono ricomposte nel loro alveo. Nessuna sorpresa. Nella storia c’è sempre un “termidoro” che pone fine alle pulsioni rivoluzionarie. Non necessariamente un male, anzi tornare alla normalità per un paese, come l’Italia, ancora prigioniero di una crisi dagli incerti sviluppi, può essere manifestazione di saggezza. Sempre che si abbia la capacità di compiere le scelte necessarie. Cosa di cui si può dubitare. Ma come non capire lo sconcerto di coloro che avevano creduto nella palingenesi ed, ora, sono, invece, costretti a tornare con i piedi per terra?

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