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Governo Libico

Che cosa succede davvero in Libia fra Arabia Saudita, Emirati Arabi, Qatar e Turchia. L’analisi della prof. Mercuri

Tutti i fronti in Libia spiegati e analizzati da Michela Mercuri, autrice del recente saggio "Incognita Libia"

 

Quando una persona normale, non necessariamente drogata di informazione come noi giornalisti, vuole farsi un’idea di un tema di cui sa poco o nulla, probabilmente si recherà in libreria ad acquistare uno di quei famosi manuali for dummies. Opere che hanno il pregio di mettere i profani nelle condizioni di afferrare le nozioni più elementari di un determinato argomento e di maturare quindi una propria opinione.

È lo stesso mandato che Start Magazine ha affidato a Michela Mercuri per aiutare i lettori a orientarsi nel magma della crisi libica. Professoressa di Geopolitica del Medio Oriente all’Università Niccolò Cusano di Roma, docente di Terrorismo alla SIOI e componente dell’Osservatorio sul Fondamentalismo religioso e sul terrorismo di matrice jihadista, Mercuri è una di quelle persone che, sulla Libia, è in grado di condurci per mano e illustrarci tutti gli arcana imperi. All’analisi della situazione del Paese nostro dirimpettaio, non a caso, è dedicato il suo ultimo libro, “Incognita Libia”, giunto alla seconda edizione.

In questa intervista, Mercuri non solo commenta le notizie delle ultime ore, ma ci offre una preziosa chiave di lettura di una guerra per procura che è solo uno dei fronti in cui si sta consumando uno scontro regionale interno al mondo islamico sunnita.

E’ una partita complessa, che vede contrapposti il campo di Qatar e Turchia da un lato e quello di Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti dall’altro, e muoversi le ombre delle potenze medie e grandi come Usa, Russia e Francia, in cui il nostro Paese si è trovato invischiato senza probabilmente avere gli strumenti necessari per orizzontarsi.

Ecco perché le glosse di Mercuri sono senz’altro preziose, e ci mettono nelle condizioni di afferrare chi e quanti siano gli attori che si muovono nello scenario libico e quale sia l’oggetto del contendere.

Prof. Mercuri, cominciamo dalle ultime notizie dalla Libia.

Dal punto di vista militare, la situazione è bloccata. Il numero dei morti negli ultimi giorni ad esempio è stato piuttosto limitato rispetto alle settimane precedenti. Peraltro in questo momento entrambi gli schieramenti combattono con il 20% circa degli effettivi: questo ci conferma l’intenzione delle parti di restare guardinghe e di misurarsi in quella che ormai è una guerra di posizione. In questo contesto si è verificata la visita di Sarraj in Europa.

Ha ottenuto quel che sperava dai suoi interlocutori?

No, il viaggio non ha sortito alcun effetto. Se Sarraj è riuscito in qualche modo a interloquire con l’Italia, la Gran Bretagna, e anche per certi versi con la Germania, con la Francia invece non c’è stato nessun accordo né sembra esserci alcun punto in comune. Da qui discende la decisione di Sarraj di sospendere le operazioni di quaranta società internazionali a cui sono scadute le licenze, tra cui la Total.

Una mossa che ha destato scalpore, ma che poi è rientrata.

Sì, infatti adesso si sta parlando – e probabilmente verrà approvata nelle prossime ore – di una proroga di ulteriori tre mesi a queste società, Total inclusa, per permettere il rinnovo delle loro licenze. Quella di Sarraj, dunque, è stata più che altro una mossa mediatica. Che produrrà ben pochi risultati sul terreno. Total continuerà a operare indisturbata in Cirenaica, anche perché è un territorio su cui Sarraj non ha alcun controllo.

Quindi, scusi, se Sarraj non ha alcun controllo della Cirenaica, come lo interpretiamo il suo passo di giovedì su Total? Un gesto disperato?

Sarraj sa di non avere la possibilità di bloccare l’attività della Total in Cirenaica. Sa anche molto bene che in Cirenaica esistono dei duplicati della Noc e della Banca centrale che Haftar può attivare in qualsiasi momento per commercializzare il petrolio francese. Di fatto, quindi, quello di Sarraj è stato un gesto puramente propagandistico.

Lei ha scritto che se “non si risolverà la “guerra per procura del Golfo in Libia, il conflitto sarà destinato a durare a lungo”. Quali sono i termini di questo scontro?

Noi abbiamo sempre interpretato la crisi libica come una guerra per procura tra le potenze internazionali come Usa, Russia e Francia. Non abbiamo valutato invece la dimensione regionale e religiosa di questa guerra, che si è palesata in maniera virulenta negli ultimi mesi. Quella in corso in Libia in questo momento è una guerra inter-sunnita tra le potenze del Golfo da un lato e il Qatar e la Turchia dall’altro. Queste ultime finanziano i Fratelli Musulmani di Tripoli e i misuratini. I sauditi e gli emiratini invece finanziano Haftar, anche se bisogna dire che il Maresciallo è molto vicino alla corrente madkhalita, che è una corrente salafita che ha la sua culla in Arabia Saudita. Noi abbiamo sottovalutato per troppo tempo questi aspetti regionali e religiosi. Dai quali deriva un assunto molto importante: se si vuole davvero fermare questa guerra, dobbiamo far dialogare le potenze regionali.

Qual è la vera posta in gioco della guerra inter-sunnita?

Da un lato c’è la questione egemonica, ossia la supremazia di una visione dell’islam sulle altre: i maggiori contendenti sono la dottrina wahabita dell’Arabia Saudita e quella dei Fratelli Musulmani sponsorizzata da Qatar e Turchia. Dall’altro lato, c’è uno scontro politico tra questi due campi contrapposti: il Qatar si è ad un certo punto staccato dai suoi alleati del Golfo, favorendo la Fratellanza Musulmana in Libia e in altri scenari. Dunque, c’’è una spaccatura che è sia religiosa che politica.

Gli Stati Uniti sembrano aver scelto da che parte stare, tant’è che pochi giorni fa è arrivato l’endorsement di Trump ad Haftar.

Trump è salito sul carro di quello che a suo parere sarà il vincitore della partita libica per un semplice fatto: non ha una visione chiara di quello che accade in Libia. Poi è anche possibile che Trump, mettendo su uno dei piatti della bilancia gli affari che fa con i sauditi e sull’altro piatto l’alleanza con l’Italia e la linea politica di sostegno a Sarraj, abbia preferito passare dall’altra parte per non scontentare i suoi partner economici sauditi.

A proposito di Italia, come giudica la linea del nostro governo, sintetizzata nella dichiarazione del premier Giuseppe Conte secondo cui “Noi italiani non stiamo né con Haftar né con Sarraj, ma con il popolo”?

Si tende ad essere sempre molto critici nei confronti dell’operato del nostro governo. Sicuramente ci sono state delle falle, ma d’altra parte bisogna tenere conto della situazione sul terreno. C’è uno scontro tra le milizie di Misurata e quelle di Haftar, e questo scontro locale è sponsorizzato dalle potenze regionali. Come altre potenze europee e internazionali, l’Italia è stata colta di sorpresa dall’avanzata di Haftar. Noi però a questo punto dovremmo far valere il capitale di fiducia che abbiamo storicamente a Tripoli per mediare con Haftar e i suoi alleati. Le faccio un esempio.

Prego.

È come se stessimo facendo una partita a poker: dobbiamo buttare giù le nostre carte. E quali sono le nostre carte? Sono la conoscenza di Tripoli, delle sue milizie e dei gruppi di potere locali; e la vicinanza con le milizie di Misurata e con Ahmed Maitig (il vice di Sarraj ndr). Queste sono le carte che abbiamo. Le dobbiamo giocare, rimanendo dunque con Sarraj, ma allargando il nostro gioco anche ad Haftar. Dobbiamo sfruttare questi nostri asset che non ha nessuno degli alleati di Haftar. Se noi riusciamo a mantenere questa posizione di equidistanza, possiamo continuare a svolgere un ruolo di mediazione nel Paese. Poi ci sarebbe un secondo step.

Quale?

La seconda cosa da fare per salvare la nostra posizione in Libia è comprendere che la partita si gioca, lo ripeto, su un piano regionale. Dobbiamo essere in grado anche noi di giocare su questo piano, parlando sia con il Qatar, e già lo stiamo facendo, sia con gli Emirati, e anche questo lo stiamo facendo. Dobbiamo essere capaci di agire su questi livelli, senza però abbandonare Sarraj. In questo modo possiamo aprirci anche ad un altro alleato di Haftar che sembra voler salire su un gradino più alto: la Russia. Sappiamo che Conte a Pechino (al forum sulla Belt and Road Initiative ndr) ha chiesto aiuto a Putin. Io credo che intavolare un dialogo con la Russia potrebbe essere importante.

Veniamo alla Francia, che lei – confermando la percezione che ne abbiamo in Italia – definisce “l’attore meno trasparente e più spregiudicato dello schieramento che sostiene Haftar”. Che partita sta giocando Parigi in Libia, e soprattutto: è una partita contro di noi?

È dal 2011 che la Francia sta giocando una partita contro l’Italia in Libia. Con Sarkozy, otto anni fa, è stata capace di convincere la comunità internazionale a far fuori Gheddafi e a condurre l’Italia in una guerra contro i propri interessi. Ha continuato poi a mantenere una doppia linea, partecipando per esempio a tutti i vertici, tra cui quello di Skhirat (in Marocco, nel dicembre 2016, ndr) che ha incoronato Sarraj come leader del governo di Accordo Nazionale, continuando contemporaneamente a commerciare in armi con Haftar. Tuttavia in questo momento Macron è in difficoltà sia sul fronte interno, sia su quello internazionale, in particolare in Africa. Ci sono state molte proteste contro Macron negli ultimi mesi nel Sahel e in varie ex colonie francesi. Anche i giovani che sono scesi in piazza in Algeria hanno protestato contro Macron. In Libia, poi, le persone che hanno manifestato a piazza dei Martiri contro Haftar hanno protestato anche contro il presidente francese. In questo momento, quindi, la posizione di Macron è decisamente depotenziata. È un presidente che è molto meno influente di quanto siano stati i suoi predecessori. Non credo quindi che sia lui il principale ostacolo ad una stabilizzazione della Libia.

Questa guerra, lei sottolinea, ha “decretato il fallimento definitivo del multilateralismo”. Probabilmente non era necessario ricordarlo, ma già che ci siamo ci vuole dire qualcosa su questa débâcle?

Sin dall’inizio la questione libica ha decretato il fallimento del multilateralismo. Nel 2011 abbiamo agito con un’azione internazionale voluta essenzialmente da una sola potenza. Abbiamo poi proseguito in ordine sparso, alimentando ognuno le varie fazioni sul terreno. Non siamo stato in grado inoltre di avere una linea comune a livello europeo: sia il vertice di Parigi sia quello di Palermo sono stati convocati da singoli Paesi e non, come si dovrebbe, dalle Nazioni Unite. L’Onu è stata invitata come ospite a dei vertici convocati dagli Stati, e questo denota il suo più grande fallimento. In questo contesto, l’Italia ne esce come il Paese più coerente, che ha sostenuto sin dall’inizio il leader sponsorizzato dall’Onu, Sarraj, e continua a difenderlo nonostante tutto e tutti.

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